30 dischi che ci son piaciuti quest’anno

Ma qualche parola in meno sprecata al riguardo

Spineless Laugh
29 min readJan 20, 2020

Classifiche tossiche

Anche oggi smetto domani

Questa roba delle classifiche di fine anno, ogni anno è sempre peggio. Vorresti smettere, ma non ti riesce. E non ti dà nemmeno le soddisfazioni della cocaina nel breve termine. Piuttosto, è come sentirsi dentro una di quelle relazioni tossiche in cui hai tutto in testa e riusciresti pure a dirlo, ma dall’altra parte c’è una persona che non ha più voglia di ascoltarti.

E allora dici va bene basta, che parlo a fare? Però poi subito dopo dai, magari un’ultima volta. E così andate a mangiare una pizza, ma senza finire a letto. Te parli un sacco, lei beve un sacco. La riaccompagni a casa, ti vomita sulle Doc Martens nuove mentre prova a darti un bacino sulla guancia e subito a seguire ti guarda — con lo sguardo annebbiato dallo Chardonnay scadente che le hai offerto, ma comunque sempre abbastanza eloquente da non lasciare dubbi sul significato — come a dire: a quarant’anni ancora le Dr. Martens ti compri?

È a quel punto che ti trovi di fronte a un bivio della peggior specie: di quelli da cui non si torna indietro, ma in cui — allo stesso tempo — qualunque strada prendi è quella sbagliata. Un meraviglioso lose-lose che nemmeno dentro un testo degli Alice In Chains nel ’92. Ovvero la scelta tra mentire con un semplice “sì”, oppure chiudere in bellezza, forte della sincerità di un testimone al banco degli imputati, confessando: son le stesse su cui hai vomitato vent’anni fa (and help me God).

Ecco. Io sono io. Voi siete lei. Queste benedette classifiche di fine anno sono i meravigliosi anfibi di quando eravamo giovani e belli — combinazione unica di design autentici, onesti e robusti, famosi per averci donato comfort e durevolezza applicati a modelli iconici e allo stesso tempo alternativi. Sporchi di una crisi di rigetto aromatizzata al vino bianco e frammenti di arachidi, s’intende.

TL;DR

Una GIF

E allora è andata che quest’anno mi ero detto: che parlo a fare? Millemila battute a cui nessuno arriverà mai in fondo. Un botto di tempo mandato in vacca. E poi tutti a lamentarsi che scrivo troppo. E ancora l’album che è morto. La fruizione musicale mordi&fuggi. Il gusto della lettura questo sconosciuto. La soglia di attenzione ormai misurabile in nanosecondi. La comunicazione visuale che si è mangiata quella amanuense e verbosa. Sai cosa? Faccio una GIF.

Fandom

Poi si sa come si rigirano questi buoni propositi per l’anno nuovo. La carne è debole. L’ego sensibile. Decisioni forti richiedono fermezza d’animo. Non ci dovrebbe essere spazio per compassione o lusinghe. E invece liquidare con un “no” sgarbato richieste d’aiuto fatte con gli occhioni da Gatto con gli Stivali è difficile. Perché la verità è che l’ultima cosa che vuoi è deludere tutti i tuoi fan.

Tutti e due, dico.

Terms & conditions

Però almeno darsi una regola: basso profilo e una qualche dose di sintesi. Tradotto — massimo 1K battute per album, se possibile meno. E basta distinzioni: stranieri e italiani tutti insieme, a limonare duro in un pot-pourri globalizzato di lingue senza freni.

Contro ogni pronostico, più o meno ci sono riuscito. Anche se non m’ha mica dato tanta soddisfazione. Ma per voi questo e altro, brutte capre funzionalmente analfabete, figlie di un amplesso a tre — su Tinder — tra un meme, un hashtag e un’Instagram Story.

Scherzo, vi voglio bene anche così come siete.

E poi comunque — se il conforto della matematica non ci abbandona — fan sempre più di 30K battute in totale. Alla faccia vostra.

Big Data

Self-analytics

Ma prima di partire, un po’ di numeri. Dopotutto, fin dalla notte dei tempi, la statistica rimane la migliore (nel senso di più attendibile) espressione della realtà e fare un po’ di sentiment auto-analysis è la versione 2.0 della masturbazione freudiana. Nel senso che scatenare la Bestia su noi stessi può portare a un — tanto improbabile quanto sano — cortocircuito ricco di sorprese da cui imparare qualcosa. Come una lavanda gastrica, ma più invasiva.

Mandami la posizione

La geolocalizzazione risente di probabile effetto-Brexit, che porta il Regno Unito a raggiungere in vetta i grandi favoriti USA: 11 artisti a testa, anche se — considerando eventuali altre spinte indipendentiste — c’è da specificare che ben due vengono dalla verde Irlanda e uno dalla Scozia. Le restanti briciole si perdono in Italia appunto (3 — ma due dei quali cantano in inglese, quindi forse non vale), Australia (2) e una a testa per Francia, Germania e Canada.

#MeeToo

Vogliamo parlare di sesso? Ok, parliamo di sesso. Ma non nel senso che dite voi. Chiudete PornHub, subito. Al di là di specifici casi più promiscui che andrebbero catalogati sotto la categoria “non so” e riguardo ai quali non abbiamo troppe informazioni, il patriarcato ancora la fa da padrone, ma — sorprendentemente — le donne sono ben 9, e tutte in posizioni discretamente alte. E di nuovo no, non stiamo parlando del Kamasutra. Cristo.

Taggami

Infine le etichette. E qui il dato è soprendente: sono tutte diverse. Come questo possa significare qualcosa per il mio profilo psichiatrico non ne ho idea. Immagino sia una particolare declinazione (ristretta alla nicchia relativa a produzione e promozione) dell’atavico scambio di battute:

— Ma te, cosa ascolti?
— Mah, un po’ di tutto.

30. JUNGSTÖTTER — Love Is

30. JUNGSTÖTTER — Love Is

I dolori del giovane Fabian

Un tedesco che ha la pretesa di dirci cos’è l’amore. Fa già ridere così. Fabian Altstötter faceva post-punk con i Sizarr, ma come genere non gli sembrava abbastanza derivativo. C’è da capirlo: scopiazzare i Joy Division i Gang of Four è un’attività ormai inflazionata come vendere kebab a Berlino Est. Quindi perché non andare a stalkerare virtualmente Antony (& the Johnson), Thomas Feiner, David Sylvian e la buon anima di Mark Hollis per provare a diventare l’Alex Cameron di Landau? Detto, fatto. Melodrammi baritonali per cuori che battono e rimbombano in toraci ariani larghi come quelli di un bue bavarese e ottimisti come gli occhi di Goethe. Il tutto tenuto insieme dal languore nostalgico di uno che ci sa fare e da una fragilità svelata che ben poco ha a che vedere con l’immaginario di solidità teutonica con cui Audi, BMW e Volkswagen hanno provato per anni a fregarci. Alla faccia dei crash-test.

Tracce caldamente consigliate: Sally Ran, Wound Wrapped in Song, To Be Someone Else

29. RICHARD DAWSON — 2020

29. RICHARD DAWSON — 2020

La stream of conciousness ai tempi della Brexit

Non sempre è semplice fare i conti con Richard Dawson. È complicato metterlo alle strette appiccicandogli in fronte un’etichetta sensata, anche se alla fine dici folk e metti d’accordo tutti. Faticoso trovare anche solo lateralmente divertente quello che produce, eppure un sorriso storto ci scappa quasi sempre. 2020 prende il futuro in contropiede, con quell’infinitesimo di anticipo che basta per provare a fregarlo e ci mette una croce sopra. È un trucco buono per chiamare il presente con il nome di un altro e affrontare le proprie ansie e idiosincrasie con delicata sguaiatezza indie-pop, come se le conoscessi da una vita. Un genio? Probabilmente sì. Dipenda dal livello di coolness che vi piace associare al termine. Se amate i geni della porta accanto, con la barba di una settimana, le briciole di hamburger sulla camicia e il lavandino intasato da mesi, allora sarà amore a prima vista.

Tracce caldamente consigliate: Jogging, Black Triangle, Dead Dog in an Alleyway

28. BOY HARSHER — Careful

28. BOY HARSHER — Careful

Ballare cauti sui cocci di risentimento e desiderio

A più di dieci anni dal suo apice sulle passerelle dei maggiori brand del fashion luxury, la cosiddetta minimal wave era più o meno scomparsa dai radar. Quello che ne era rimasto si vedeva sostanzialmente arroccato attorno una certa purezza storica che spesso si è tradotta in ripetitività musicale. Augustus Muller e Jae Matthews portano una boccata di aria meno viziata al genere e — insieme a quella — una palette di suoni sorprendentemente varia, che spazia dagli anni’80 ai ’90, senza per forza puzzare di morto. Boy Harsher ha il buon gusto di prendersi cura di emozioni viscerali (e ben poco confortanti) con inusuale delicatezza e attenzione. Careful è il suono di ognuno di noi, quando si è perso e non riesce più a ritrovarsi, eppure continua a cercarsi. Nel senso: butta male, ma abbiamo tempo. E — soprattutto — una colonna sonora.

Tracce caldamente consigliate: Face the Fire, Fate, Come Closer

27. THE TWILIGHT SAD — It Won/t Be Like This All the Time

27. THE TWILIGHT SAD — It Won/t Be Like This All the Time

Che sia la volta buona, almeno fino alla prossima volta

Ogni album dei Twilight Sad sin qua è stato un buon album. A volte ottimo. Ma tutti quelli che hanno seguito il loro debutto hanno sempre avuto il sapore di una concessione. Uno strano percorso in cui la progressione si otteneva per sottrazione. Senza conforto nel contenuto, senza calore nell’esecuzione. Non so quanto la cosa fosse solo un’impressione, ma sembrava sul serio che a suonare stessero facendo un piacere a noi, prima che a loro stessi. Nel senso, se — come qualcuno sostiene — l’empatia che si trasmette è la perfetta espressione della mente che la genera, non avrei voluto essere nei panni dello psichiatra di James Graham. Ecco, oggi lo psichiatra di James Graham si prende la sua personale rivincita in quanto stimato professionista. La band che sta dietro a It Won/t Be Like This All the Time è determinata, seduttiva, piena fino all’orlo di un’oscura self-confidence. Di più: appare completamente pronta a ribaltare il proprio cammino. Certo, magari la prossima volta, ma intanto anche l’attesa è un bel posto in cui sostare.

Tracce caldamente consigliate: Shooting Dennis Hopper Shooting, VTr, Videograms

26. PUMAROSA, Devastation

26. PUMAROSA — Devastation

Hello Kitty che ti azzanna i polpacci. Quel pupazzaccio di Uan che ti conficca gli artigli nella carne flaccida delle tue stanche maniglie dell’amore. Un felino pucciosissimo che aspetta solo che ti giri dall’altra parte per dimostrarti di che pasta è fatto, a forza di schiaffi sul culo. La voce angelicamente sexy di Isabel Muñoz-Newsome che canta roba sconcia su pattern quasi drum’n’bass, a dimostrare che non solo Trent Reznor è capace di organizzare sensuali rave meccanici mentre ti sussurra all’orecchio come ti vuole scopare. Chiamalo trip-pop animalesco, chiamalo trance-hop ripulito. Poco importa. Ti lascia a bocca aperta, con la mandibola calata come il peggior Uomo Tigre di fronte alla più bella donna puma, appunto. Devastante.

Tracce caldamente consigliate: I See You, I Can Change, Virtue

25. ALCEST — Spiritual Instinct

25. ALCEST — Spiritual Instinct

Un ossimoro reso genere musicale

In ormai quasi vent’anni di carriera, gli Alcest hanno dimostrato di trovarsi perfettamente a loro agio con l’arte di tirare a campare nel ruolo di outsider. Troppa grandeur e magnificenza per la notoriamente intransigente scena black d’oltralpe, ma altrettanto eccessivamente oscuri e tenebrosi (e senza nessun rimorso al riguardo, peraltro) per i ristretti e spocchiosi circoli post-rock attorno a cui — volenti o nolenti — sono finiti più volte a orbitare. Di cosa stiamo parlando? Di una musica che è il solido ponte immaginario tra gioia e malinconia, ordine e caos, bellezza e orrore. Una roba che richiede il coraggio di sporgersi nel vuoto per goderne l’effettivo equilibrio. O anche solo per darle un nome. Ma alla fine tant’è: basta buttarci un “post” davanti per mettersi al riparo da qualunque contradditorio, no? E allora vada per post-metal. O se preferite — come vogliono quelli pignoli—blackgaze. Nell’eterna indecisione tra bruciare le chiese e guardarsi le scarpe.

Tracce caldamente consigliate: Protection, Sapphire, L’île Des Morts

24. UZEDA — Quocumque Jeceris Stabit

24. UZEDA — Quocumque Jeceris Stabit

Cocciuta bellezza ad altissimo voltaggio

Un tesoro nazionale, questo dovrebbe essere lo status riconosciuto degli Uzeda. Non fosse altro per il fatto di rappresentare il miglior esempio del nostro dramma. Il dramma di non camparci, in questo paese e con questa musica. In questo paese in generale. Con la musica, in generale. Anche se sei più famoso negli Stati Uniti che in Italia. Anche se hai fatto innamorare Steve Albini, con tutte le problematiche di una relazione a distanza. E il mare in mezzo. A tal proposito, Quocumque Jeceris Stabit ricorda quei pinguini gonfiabili che nelle ultime estati hanno invaso i confini della nostra risacca: dovunque li lanci rimangono in piedi. Una dichiarazione di resilienza e capacità di adattamento. Ovvero il poco che serve per non lasciarci la pelle e tornare — dopo tredici anni — con un nuovo, ennesimo, drammatico capolavoro. Dritto, scarno. Autoesplicativo.

Tracce caldamente consigliate: Soap, Deep Blue Sea, Blind

23. THE MURDER CAPITAL — When I Have Fears

23. THE MURDER CAPITAL — When I Have Fears

Post-punk col proprio culo, ma anche con quello degli altri

Chiamiamolo pure post-punk, senza troppi rimorsi. Dopotutto a sparare nel mucchio spesso ci si prende. O comunque, nella peggiore delle ipotesi, si disperdono i manifestanti rimandando la questione a data da destinarsi. La questione — quando si parla di post-punk nel quasi-2020, appunto — sta tutta in quello spazio angusto che divide il confronto dalla copia sputata. Questione spinosa, soprattutto se messa davanti a un genere che ha lasciato più epigoni che maestri. Ma anche questo, qualcosa vorrà pur dire. Non che i Murder Capital abbiano la risposta alla cosa, ma un esordio così selvaggio nella sua bellezza — che punta alla poetica dei connazionali Whipping Boy senza avvertirti prima di quanto farà male, ma lasciandoti affannato allo specchio, a far la conta dei lividi e delle labbra spaccate — ti fa dimenticare (anche solo per mere questioni di sopravvivenza) tutta quella lana caprina.

Tracce caldamente consigliate: More Is Less, Green & Blue, On Twisted Ground

22. THOM YORKE — Anima

22. THOM YORKE — Anima

Una luce nel lato oscuro della bellezza

Il concetto di “anima” — religiosamente inteso — ha poco a che fare con questa storia. Ma la parola — così, proprio in italiano — aveva il suono giusto per andare a scavare in quella zona grigia che sta tra il disordine interiore e il monologo intimo. C’ha messo tre dischi solisti, ma finalmente Thom Yorke è arrivato a qualcosa di suo sul serio. Un sogno febbrile la cui oscura presenza va ben oltre l’immagine di una star annoiata dalle chitarre che si è messa a smanettare sulla timeline di Ableton Live. Storie di claustrofobia contemporanea, fatte di beat e byte minimali ma pesanti come macigni, per un passo — sghembo quanto si vuole ma sempre in avanti — deciso e rassegnato, nel tempo e nello spazio. Una profezia nera sul presente, che mette la speranza di fronte alle proprie responsabilità: no, la fine del mondo non sta per arrivare — è già qua da un po’. Ci siamo dentro. Anzi, peggio: siamo noi.

Tracce caldamente consigliate: Traffic, Dawn Chorus, Not the News

21. ELBOW — Giants of All Sizes

21. ELBOW — Giants of All Sizes

Non è la fine, è solo la fine della speranza

Gli Elbow possono essere definiti tutto meno che emozionalmente mono-dimensionali, ma quando si è trattato di spingere sul pedale dell’evangelismo ottimista, hanno sempre dimostrato di avere un qualcosa in più di qualunque altro loro collega. Una specie di convinzione quasi granitica che con un po’ di impegno non dovesse per forza andare tutto in vacca, in questo mondo post-disneyano. Poi invece è successo che sono arrivate le rughe e Boris Johnson, i capelli bianchi e qualche chilo di cinismo in più ad appesantire il girovita. È una storia già vista: la gente cara che inizia a creparti attorno, l’amore che passa mentre l’herpes è per sempre e vari dubbi sul senso del Creato in mezzo a tutta questa merda che iniziano a girarti insistentemente in testa. Certo, ci sono ancora tracce dello stesso, fortissimo senso di empatia di sempre, ma se anche Guy Garvey e soci hanno perso quei due penny di speranza, forse è il caso che le gambe di tutti inizino a tremare davvero, con drammatica consapevolezza.

Tracce caldamente consigliate: Dexter & Sinister, Empires, White Noise White Heat

20. LIFE — A Picture of Good Health

20. LIFE — A Picture of Good Health

Chi l’ha detto che non ci son più le canzoni di protesta di una volta?

Uno schiaffo ai propri coetanei su tutto il fronte — politica, impegno, illusioni, emozioni ai tempi del liceo — in precario equilibrio sull’orlo del vuoto post-Brexit. Il punk è sempre a portata di mano quando la mano serve a dare ceffoni che siano d’ispirazione. Una nazione che si è fatta delle domande con la presunzione di sapere già le risposte. Una generazione confusa, che ha rinunciato a saper selezionare gli input ma ha sta sguazzando incosciente nell’imbarazzo della scelta degli output. Un genere musicale dato per morto ancora in culla e che — ormai alle soglie di una pensione che mai sembra arrivare — continua a sostenere con i fatti di aver ancora qualcosa da dire, qualcuno a cui parlare e qualcun altro attraverso cui parlare. Tipo una band come questa, che pare davvero — alla faccia dell’ironia nera — il ritratto della salute.

Tracce caldamente consigliate: Moral Fibre, Bum Hour, It’s a Con

19. GUARDS — Modern Hymns

19. GUARDS — Modern Hymns

Tutto è bene quel che finisce bene

I Guards sono quello che noi radical-chic dell’indie-rock avremmo voluto diventassero gli Arcade Fire: gente che scrive canzoni pop della madonna e le canta per quattro gatti. Noi radical-chic dell’indie-rock, appunto. Col senno di poi, possiamo dire che è andata di lusso più o meno a tutti. Win Butler e soci hanno deciso di vestire i panni dei Pet Shop Boys degli anni ’10 e ora si giocano con i Coldplay e gli U2 il primo posto nell’immaginario collettivo. La creatura di Ritchie Follin prosegue imperterrita a partorire canzoni pop della madonna. Noi radical-chic dell’indie-rock possiamo continuare ad ascoltare entrambi, con l’accortezza di schifare gli Arcade Fire nei commenti di Facebook, mentre mettiamo i Guards nelle classifiche dei migliori dischi dell’anno. Ogni riferimento a persone realmente esistenti o fatti realmente accaduti è — ovviamente — del tutto casuale.

Tracce caldamente consigliate: Skyhigh, Take My Mind, You Got Me

18. PETER PERRETT — Humanworld

18. PETER PERRETT — Humanworld

Forma e sostanze (stupefacenti entrambe)

Due album nel giro di due anni. Il che ha quasi del miracoloso e fa dell’attuale il periodo più prolifico della carriera di Peter Perrett dall’ormai lontanissimo 1978–80, nel corso del quale gli Only Ones esaurirono il loro catalogo — giusto prima di un oblio passato a scegliere se era meglio farsi di eroina o di crack, un giorno sì e l’altro pure. E allora vale la pena sottolineare come questo non sia semplicemente un buon disco per uno che ha passato l’ultimo ventennio a bruciarsi i neuroni con tutto quello che passava al convento della droga: è un lavoro dannatamente buono e basta. Principalmente perché riesce a non scegliere tra le due più frequenti trappole che ti aspettano in casi come questo: sforzarsi di suonare a ogni costo attuale o cercare in tutti i modi di resuscitare la gloria del passato. Pochi fronzoli, guitar rock pulito e dritto, semplice e di gran gusto, per ribadire che — alla fine della fiera — buon sangue non mente mai. Nemmeno dopo che hai passato le tue migliori stagioni a mischiarlo accuratamente con le peggiori schifezze.

Tracce caldamente consigliate: War Plan Red, 48 Crash, Master of Destruction

17. SHARON VAN ETTEN — Remind Me Tomorrow

17. SHARON VAN ETTEN — Remind Me Tomorrow

Recitare in Twin Peaks senza fare la fine di Laura Palmer

“Follow me until you don’t know where you are”. Lo dice verso la fine dell’album, Sharon Van Etten. E dispensare consigli a viaggio concluso è quantomeno sadico. D’altra parte, tra un suggerimento e un avvertimento, la linea è sottile, eppure spesso entrambi contengono il nocciolo della questione. Ovvero un disco estroverso e oscuro, brutale e protettivo, sicuro di sé come una crisi di panico. Dove è stata tutto questo tempo? Ha suonato in dischi di altri, è comparsa sul palco di altri. Ha composto colonne sonore per film e serie TV, ha recitato in film e serie TV. È tornata al college, è diventata mamma. Non ha disimparato a scrivere canzoni. Mica poco. Seguitela finché non saprete più dove siete e — per dirla con l’agente speciale Dale Cooper — “I have no idea where this will lead us, but I have a definite feeling it will be a place both wonderful and strange”.

Tracce caldamente consigliate: Comeback Kid, Jupiter 4, Seventeen

16. PURPLE MOUNTAINS — Purple Mountains

16. PURPLE MOUNTAINS — Purple Mountains

Mai una richiesta d’aiuto è stata più chiara, consapevole e adorabile

David Berman è il J.D. Salinger dell’indie-rock. Ha una scrittura disarmante eppure è il suo fan meno entusiasta. Brillante, divertente, arguto, ma senza mai andare oltre una minuscola venerazione di culto. Dopo aver chiuso il capitolo Silver Jews e passato dieci anni a nascondersi, torna a sorpresa con il suo miglior lavoro di sempre, in cui si mostra di nuovo incapace di mettere in vetrina tutto il suo talento e la sua depressa auto-indulgenza. Lo ascolti rapito senza accorgerti che stai facendo i conti con un reciproco — assolutamente non garantito — senso di familiarità, con una mutua valorizzazione dei concetti di vergogna, ineluttabilità e sconfitta. Suona bene, tragicamente reale. Più del dovuto. Nemmeno un mese dall’uscita del disco s’ammazza, confermando così — involontariamente — una teoria che mi gira in testa da sempre: mai fidarsi delle persone troppo intelligenti.

Tracce caldamente consigliate: That’s Just the Way That I Feel, Darkness and Cold, Margaritas at the Mall

15. PEDRO THE LION, Phoenix

15. PEDRO THE LION — Phoenix

Un giorno tutto questo sarà tuo

La storia di David Bazan è ricca di auto-sabotaggi. Costantemente sull’orlo del successo planetario. Costantemente maestro nella semplice arte di darsi la zappa sui piedi, come si conviene a uno uscito da Seattle un attimo troppo tardi. Sull’onda del reflusso, quando il grunge era ormai sbiadito come un beverone di Starbucks. Sempre in bilico tra un indie-rock inzuppato di classica melodia West-Coast e lamentazioni emo mai troppo scontate, torna dopo anni al moniker originario — nome bambino come un cartone animato Disney — per andare a scavare nel deserto della sua infanzia e fare ammenda nei confronti di tutti coloro che ha in qualche modo ferito. Se stesso in primis. Tiene gli occhi bassi ma sempre la testa alta. Approccia l’impresa armato della consueta grazia e sincerità. Sfido chiunque a riuscire a non perdonarlo.

Tracce caldamente consigliate: Yellow Bike, Powerful Taboo, Quietest Friend

14. VIRGINIANA MILLER — The Unreal McCoy

14. VIRGINIANA MILLER — The Unreal McCoy

Qualcosa di falso e genuino allo stesso tempo

Simone Lenzi è — prima che un bravo cantautore — un ottimo scrittore. I Virginiana Miller, su questa cosa, c’hanno costruito una carriera. Immaginarsi la sorpresa — per molti è stato addirittura qualcosa di più: il dubbio di una delusione, uno sgomento tradito — di avere davanti un disco della band toscana cantato in inglese è cosa facile. Però provate con un esperimento: fatelo ascoltare a occhi chiusi a qualcuno che non sa chi siano. Vi dirà che non aveva mai fatto caso a questo lato così intimista degli Interpol. The Unreal McCoy è una sorta di concept album sulle contraddizioni dell’America di oggi, raccontate contemporaneamente dall’esterno e dall’interno, senza perdere un briciolo della propria identità. A parte qualche leggerissimo arrotondamento di un accento yankee inzuppato nel cacciucco alla livornese, un grande disco di rock-folk made in USA, ben piantato nelle praterie della tradizione musicale a stelle e strisce, oltre le quali però — se guardate bene, senza farvi distrarre dall’oceano che c’è in mezzo — troverete comunque i soliti, splendidi Virginiana di sempre.

Tracce caldamente consigliate: Old Baller, Motorhomes of America, Christmas 1933

13. THE NATIONAL — I Am Easy to Find

13. THE NATIONAL — I Am Easy to Find

Non c’è differenza tra fare tanto con poco o poco con tanto

Nasce da un film che assomiglia (ma non è) un videoclip. Ne esce — inevitabilmente — un album che assomiglia (ma non è) una colonna sonora. Più una raccolta di scarti venuta bene quanto gli originali, a conferma dello stato di grazia di una band che in questo momento potrebbe suonare la qualunque e farla sembrare meritevole di essere ascoltata. Un valzer che va dalle più delicate sperimentazioni ai più subdoli auto-sabotaggi e niente che riesca a rendere il tutto meno piacevole del solito. I National stanno da soli nell’angolo in cui abbiamo voluto relegare le grandi band che hanno saputo mischiare la melanconia indie-rock con un’intelligenza musicale sopraffina. Magari gradirebbero un po’ di compagnia, ma per ora, all’orizzonte, non c’è traccia di nessuna sagoma che sembra poterne essere ancorché minimamente all’altezza.

Tracce caldamente consigliate: Not In Kansas, Rylan, Light Years

12. HTRK, Venus in Leo

12. HTRK — Venus in Leo

La bellezza di un’angoscia tanto straziante quanto intima

La dimostrazione che la matematica non è un’opinione, ma che alla fine i conti non tornano mai. Che l’oroscopo può colmare distanze astrali, ma non esiste che possa riempire un’assenza. Rimasti in due dopo la scomparsa di Sean Stewart, Nigel Yang e Jonnine Standish arrivano a chiudere il cerchio che avevano aperto dieci anni fa. Il prezzo lo ha fatto la vita, e sta nel pesantissimo fardello emozionale che sono stati costretti ad abbandonare durante il cammino. Quel che resta è una lucida, splendida caparbietà che a tratti sembra stridere con la nuova fragilità dei loro suoni. La totale assenza di magnificenza e fronzoli dà l’impressione di scivolarti addosso da lontano. E invece è come le pieghe del cuscino appena svegli: lascia addosso tracce che — a tradimento — fanno male al cuore e bene all’anima.

Tracce caldamente consigliate: Venus in Leo, New Year’s Day, New Year’s Eve

11. BLOOD RED SHOES — Get Tragic

11. BLOOD RED SHOES — Get Tragic

Ri-azzerare i gradi di separazione

Succede che a volte la vicinanza forzata fa più danni della grandine. Succede che, dopo dieci anni in cui — a esagerare — sei stato lontano da qualcuno forse dieci giorni in totale, ti viene voglia di mandarlo affanculo. Succede che alla fine ce lo mandi. Molti prendiamoci una pausa™ partono così e finiscono immancabilmente in vacca. Laura Marie-Carter si è chiusa in casa a scrivere. Si ricorda ogni singolo istante. Steven Ansel ha passato un anno in giro per locali a drogarsi peso e ballare la techno. Non si ricorda granché. Non so se è uno scenario che consiglierei a qualunque coppia in crisi, ma ha funzionato. Get Tragic è più potente e insolente che mai, prende il power-rock e gli dà una mano di sintetico, lo ammanta di chitarre scure e lo stordisce di botte sulle pelli. E qualche calcio nelle palle, che non guasta mai. Senza perdere un grammo di profondità, nemmeno per sbaglio.

Tracce caldamente consigliate: Eye to Eye, Mexican Dress, Elijah

10. BILLIE EILISH — When We All Fall Asleep Where Do We Go?

10. BILLIE EILISH — When We All Fall Asleep Where Do We Go?

Il terror-pop della Generazione Z piace anche agli anziani

Noi vecchi (nel caso specifico, chiunque sotto i 23 anni) facciam presto a far gli sboroni e a mettere in fila saccenti tutta la lista di gente senza cui Billie Eilish non sarebbe stata Billie Eilish: Lana Del Rey e le sue ballate aromatizzate agli psicofarmaci, il minimalismo (hip) pop di Lorde, una certa witch house ben poco spaventevole, da “dolcetto o scherzetto”. Alla faccia nostra, lei non ci prova nemmeno a nascondere il fatto di essere il prodotto di un’adolescenza cresciuta online, affogata fino al collo in una cultura pop(olare) che ormai risulta difficile distinguere da un pantano senza capo né coda. Il punto è cosa ci fa con quella melma. Molto semplicemente (si fa per dire) qualcosa di unico. Come ogni autore horror che si rispetti, usa l’intimità per amplificarne le cicatrici. È un attacco di panico che si fa PC music. È la prima volta che provi uno strano disagio guardando negli occhi tua figlia. Sei tu che pensavi fosse amore e invece era disco di platino su Spotify. E la cosa non ti dispiace affatto.

Tracce caldamente consigliate: Bad Guy, All the Good Girls Go to Hell, Bury a Friend

9. KAREN O & DANGER MOUSE — Lux Prima

9. KAREN O & DANGER MOUSE — Lux Prima

Complessa, cruciale, intenzionale: è la coppia che (non) scoppia

Le strane coppie in musica hanno una storia antica e variegata. Senza per forza dover fare i nomi, alcune sono state sorprendenti, altre inspiegabili, altre ancora dei fiaschi totali, non molte indimenticabili. Col passare del tempo, le cose sono andate a peggiorare. Le divisioni tra i generi sempre più sfumate, le influenze reciproche accavallate le une sulle altre — metteteci pure che un po’ di vago crossover così alla cazzo si è sempre venduto abbastanza bene da solo e capirete che di spazio per improbabili compagni di letto, duetti disastrosi e collaborazioni forzate sempre c’è stato e sempre ci sarà sempre. Poi capita — inaspettatamente — che invece tutto abbia perfettamente senso. Capita che finire a condividere la stessa carrozza su un treno diretto verso una meta comune sappia più di destino che di scelta. Capita che i pezzi si incastrino senza spingere. E allora il punk si fa retrò, il funk annaspa elegante fino all’hip-hop e tutto sa di cinema d’essai sperimentale. Ma di quello buono, senza spocchia. Questa è una di quelle volte.

Tracce caldamente consigliate: Turn the Light, Woman, Redeemer

8. FOALS, Everything Not Saved Will Be Lost (Part 1 & 2)

8. FOALS — Everything Not Saved Will Be Lost (Part 1 & 2)

Quelli bravi

Chiamiamola la sindrome di Kill Bill. Se vogliamo rimanere in tema musicale, effetto Kid A / Amnesiac. È che quando sei bravo ci prendi gusto. Essere bravi aiuta a diventare più bravi. Un circolo virtuoso da cui poi è un casino uscire. Come il porno online, ma meno vizioso, ecco. Funziona che le band normali buttano giù 30/40 pezzi per tirarci fuori un disco con una decina di canzoni ascoltabili. Quelli bravi buttano giù 30/40 pezzi e poi non sanno scegliere perché son tutti buoni, e allora fanno uscire due album nel giro di sei mesi. I Foals son quelli bravi. Sono la strada che avrebbe dovuto prendere l’hard-rock per non puzzare più di stantìo. La naturale evoluzione della combo Fender Telecaster + ampli Marshall + piano Rhode per arrivare oltre la soglia del 2.0 e non restare impantanati nel fango di uno Woodstock perenne. E invece rimangono solo il piacevolissimo suono di un’eccezione.

Tracce caldamente consigliate: Exits, White Onions, The Runner

7. ALICE MERTON — Mint

7. ALICE MERTON — Mint

La meritocrazia che sbarca (e sbanca) in classifica

Da qualche parte, in una zona d’ombra dell’universo rock moderno, c’è una realtà parallela in cui le cantautrici da cameretta diventano dive alternative. Se passate da quelle parti, chiedete di Alice Merton. Dovrebbe essere ben nota agli abitanti del luogo, visto che l’hanno eletta loro regina. Ve li ricordate quei grandiosi album pop di un tempo, da cui potevi pescare a caso — e a piene mani — sicuro di tirar fuori una hit da classifica al 100%. Era un po’ che ne avevamo perso le tracce. Esistevano ancora i CD, e potevi girarli, indicare col ditino — e a occhi chiusi — sulla tracklist scritta sul retro, certo che saresti comunque cascato bene. Mint è un disco così perfetto che quasi fa spavento. Undici pezzi che potrebbero essere tutti dei singoli. Anzi, molti già lo sono, o lo sono stati. Per dire, può darsi non abbiate mai sentito parlare di questa tizia mezza tedesca e mezza canadese, ma sicuramente negli ultimi due anni qualche volta vi siete chiesti a voce alta: di chi è la canzone usata in questa pubblicità? Ecco.

Tracce caldamente consigliate: Learn to Live, Lash Out, Honeymoon Heartbreak

6. BETTER OBLIVION COMMUNITY CENTER — Better Oblivion Community Center

6. BETTER OBLIVION COMMUNITY CENTER — Better Oblivion Community Center

La tristezza è sottovalutata

Li chiamano confessional songwriter. Non suona benissimo, come termine: sembra una cosa a metà tra la versione emo di un folk singer e un gruppo di ascolto per musicisti sfigati. Tipo gli alcolisti anonimi, ma in La minore. E allora, se proprio di “confessional songwriting” vogliamo parlare, tocca ammettere che già in partenza, qui, eravamo di fronte a un cosiddetto supergruppo. Anche se i membri sono solo due. Conor Oberst, uno dei padri fondatori della comunità. Phoebe Bridges — quindici anni più giovane — una delle ultime discepole, ma per certo tra le più meritevoli. La chimica è stata evidente fin da subito, sia dal lato del confessionale, che da quello della purezza cristallina del cantautorato all’interno del rapporto maestro/allieva. Prendete della roba buona e moltiplicatela per due. Forse non otterrete due robe buone, ma sicuramente una roba molto buona. Tipo un disco registrato quasi per sbaglio, ma che è già una delle pietre miliari della malinconia indie.

Tracce caldamente consigliate: Dylan Thomas, Big Black Heart, Dominos

5. DIIV — Deceiver

5. DIIV — Deceiver

Verso il lato oscuro del confessionale: andata e ritorno

I DIIV sono una roba che ha rischiato di finir male. E, come tutte le robe che soltanto rischiano di finir male ma poi si tirano su dagli impicci sulle proprie gambe, ora stanno in piedi più convinti di prima. Quel che non ti ammazza ti fortifica, no? O, male che vada, ingrassa. Chiedete conferma a Zachary Cole Smith. Deceiver è il ritratto della dipendenza e della risalita dalla dipendenza. Sa di vittoria, ma senza giro d’onore. Quel che è sicuro è che la crea, dipendenza. Un lavoro che — per essere un disco sul rimorso — regala piaceri inspiegabili e te li lascia in dote con stupita serenità, senza ripensamenti o dubbi se tornare sui propri passi. Una band che cresce di disco in disco con una pendenza da maglia a pois. Di questo passo, è complicato immaginare dove possa arrivare.

Tracce caldamente consigliate: Skin Game, Taker, Blankenship

4. MASSIMO VOLUME — Il Nuotatore

4. MASSIMO VOLUME — Il Nuotatore

Sopravvivere è avere sempre una buona storia da raccontare

I Massimo Volume — all’interno di un concetto così vago come quello di musica italiana — non si sono limitati a creare un genere. Ci hanno scavato una fossa così larga e profonda che — alla fine della fiera — si è rivelata una distanza incolmabile prima e una fossa comune poi per chiunque ha tentato di fare qualcosa di simile. Fossa in cui, a un certo punto, hanno rischiato di lasciare la pelle anche loro stessi. Dieci anni nulla e a seguire — in questo adesso, che già sa di senno di poi, possiamo dirlo con certezza — una seconda vita che si dichiara ancora più necessaria della precedente. Il Nuotatore (forse perché — appunto — può permettersi di non camminare) non contempla passi falsi: le chitarre di Egle più liriche di sempre, una Vittoria precisa ma mai monotona, Mimì che se la ride sotto i baffi confondendoci dentro piaghe di inusuale ironia. Parlare solo quando ce n’è bisogno è una dote divina. Imparare a galleggiare prima di aprire bocca una strategia di sopravvivenza. Guardare al futuro è vietato, ma è il modo migliore per rischiare di arrivarci — se non vivi — almeno invecchiati bene. Una vasca dopo l’altra.

Tracce caldamente consigliate: Una Voce a Orlando, Il Nuotatore, Vedremo Domani

3. TOOL — Fear Inoculum

3. TOOL — Fear Inoculum

Godere i frutti di un culto senza esserne responsabili

Qualcuno li ha definiti i King Crimson con la faccia truccata da Joker. Qualcun altro i Radiohead del metal. Entrambe le cose dette con intento offensivo. Brutta bestia, l’invidia. Soprattutto quando attacca laddove trova terreno più fertile, ovvero tra il concime gourmet della critica rock. Soprattutto se hai di fronte gente che più se ne sbatte i coglioni del concetto di “successo mainstream” e più sembra fare soldi a palate. Fear Inoculum ha tirato giù Taylor Swift dalla cima delle classifiche di vendite nel giro di una settimana. E questa, come risposta alle due maggiori argomentazioni della critica di cui sopra (che vanno da “i Tool hanno rotto il cazzo” a “che significato può ancora avere un disco dei Tool nel 2019?”), mi pare abbastanza definitiva. Complessi ma non sofisticati, continuano imperterriti a cancellare i confini tra arte, psichedelia, metal e prog con inesausta curiosità e mestiere. Senza mai oltrepassare i confini dell’auto-celebrazione, se non quella che qualcuno vorrebbe per forza cucire loro addosso.

Tracce caldamente consigliate: Pneuma, Invincible, Descending

2. FONTAINES D.C. — Dogrel

2. FONTAINES D.C. — Dogrel

Essere autentici, qualunque cosa significhi

Lo sguardo sognante di Keates e il fervore riottoso degli Idles. L’analisi vigile di Joyce mischiata al disgusto infetto degli Shame. Il sarcasmo acido dei Fall che scivola su un romanticismo punk per organi caldi nonostante la bruma. E se di punk vogliamo parlare, questi al punk ci girano intorno saltandolo a piè pari: sanno di post-punk, senza mai smettere di reclamare e pretendere una certa innocenza pre-punk. A metà tra poesia da bancone del pub e irruenza da liceo artistico, I Fontaines D.C. mostrano al debutto una qualità di scrittura che altre band impiegano anni a raffinare. O che mai riescono a raggiungere. Drogel è la chiara, inaspettata e schietta immagine di una promessa già mantenuta. Una delizia anche solo stare imbambolati a guardarla. E ascoltarla, ci mancherebbe.

Tracce caldamente consigliate: Roy’s Tune, The Lotts, Boys in the Better Land

1. ANGIE MCMAHON — Salt

1. ANGIE MCMAHON — Salt

Lo stadio terminale della canzone d’amore

Al prossimo che mi dice che l’arte migliore non è figlia di un cuore spezzato, a quell’incosciente che si ostinerà a negare l’evidenza — ovvero che il dolore diventa salvifico solo quando te lo imprimi bene in testa per non rischiare di dimenticartelo nel momento in cui tutto sembrerà andare per il verso giusto — gli tiro dietro Angie McMahon. Perché quando devi trattenere le lacrime per paura mandare in frantumi la felicità degli altri, delle due l’una: o scoppi ingoiando il sale delle tue ferite o prendi una cazzo di chitarra, raccogli un filo di voce strappata e ti metti a scrivere il disco dell’anno. Salt è empatia pure misurata a spanne di talento. È lavorare su se stessi ma accorgersi che di mestiere stai facendo il cardiochirurgo. Improvvisato e ben poco allegro. Toccare i tasti sbagliati perché la mano trema, emettere uno suono — tanto inconsulto quanto irritante — mentre ti esce sangue dal naso e capire che si è accesa una lampadina, che è scattato qualcosa, fosse anche solo l’anestesia che è andata a puttane. Non essersi mai sentiti così vulnerabili ed essenziali allo stesso tempo.

Tracce caldamente consigliate: Play the Game, Keeping Time, Push

Comparse in timeline

Un like non si nega a nessuno

Questo è quanto. Visto, non è mica stato difficile? Ci sarà voluta una mezz’oretta scarsa ad arrivare fin qui.

Per concludere di fronte alla sala deserta, dunque — come la famosa particella di sodio che parla a una scena di un film western i cui unici protagonisti sono il vento che soffia e le palle di fieno che rotolano in un silenzio fatto di vortici di polvere — ribadiamo in solitudine che questi sono solo 30 dischi che ci son piaciuti quest’anno. Quindi non prendetela sul personale se a voi ne son piaciuti altri. Per dire, a noi — plurale maiestatis — ci son piaciuti (in rigoroso disordine casuale) anche i dischi di:

Chromatics, Chelsea Wolfe, James Blake, Mono, Lamb, Giovanni Succi, Clinic, Drahla, Lana Del Rey, Sebadoh, Com Truise, Black Mountain, Angel Olsen, Modern Nature, Swervedriver, Handlogic, N.A.N.O., Hugo Race Fatalists, The Dandy Warhols, Trentemøller, 65daysofstatic, Telefon Tel-Aviv, DJ Shadow, Sam Fender, Mark Lanegan Band, Girlpool, Deertick, Cass McCombs, Ladytron, HEALTH, Paolo Spaccamonti, Mercury Rev, Bob Mould, Cosey Fanny Tutti, Motorpshyco, Julie's Haircut,Stephen Malkmus, Be Forest, O.R.k., Dream Theather, The Claypool Lennon Delirium, La Dispute, Ian Brown, American Football, Pond, Uffie, Dino Fumaretto, Edda, Jesus Franco & The Drogas, Gentlemens, Gesaffelstein, The Faint, Blakq Audio, Finn Andrews, Heatens, The Brian Jonestown Massacre, Spiral Stairs, Nilüfer Yanya, Shlohmo, Apparat, Andrew Bird, Priests, The Mighties, Spoony Bard, Fulminacci, Glen Hansard, Damien Jurado, Band of Skulls, The Comet Is Coming, Kevin Morby, Foxygen, L7, Caterina Barbieri, Nick Murphy, Teen Daze, Ellen Allien, Holly Herndon, Josephine Wiggs, Perry Farrell, Palehound, Stef Chura, Pelican, Hot Chip, Jane Weaver, Baroness, The Black Keys, UNKLE, Aurora, Tycho, Banks, The Soft Cavalry, Russian Circles, Sleater-Kinney, Bon Iver, Alex Cameron, Jenny Hval, Pixies, Alex G, Efterklang, Fly Pan Am, Temples, Carla Dal Forno, City and Colour, Wilco, Kim Gordon, Starcrawler, Bodega, Clipping, Vagabon, Fink, Taxiwars, The Gotobeds, Wear Your Wounds, Blaenavon.

Molti di questi fanno la loro porca figura in questo mixtape che si permette di andare contro tutte le direttive che ci siamo dati e la sintesi non la prende in considerazione by design (son quasi sette ore, sì — ma si tratta di ascoltarle, mica di leggerle — su, ce la potete fare).

Quelli che mancano invece: o non abbiamo avuto modo di sentirli, o ce li siamo dimenticati (shame on us), o c’han fatto abbastanza schifo al cazzo.

E comunque de gustibus. Siempre.

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Spineless Laugh
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