30 dischi che ci son piaciuti quest’anno
Ma che nessuno ha cantato dal terrazzo
Un anno come nessun altro
Autostrade deserte
In caso non ve ne foste accorti, è stato un anno atipico. Nel mio piccolo, la cosa si è manifestata in un tristissimo — ma incontrovertibile — presa di coscienza: ho ascoltato meno dischi degli altri anni, in media.
Depressione post-COVID? Ansia da lockdown che genera immobilismo psichico ancor prima che fisico e conduce a giornate seduto sul divano a fissare il nulla in un vortice di pensieri impauriti? Troppo smart working? No, niente di tutto ciò. La mia accurata auto-analisi introspettiva — fatta incrociando cuori, numeri, dati di matto e indici che si ostinano a guardare il cielo anche se te guardi il dito — porta a concentrare i sospetti e le accuse in una direzione completamente diversa: molto più banalmente, ho guidato meno.
Per motivi solo parzialmente dovuti a restrizioni e DPCM e che in gran parte sconfinano in scioltezza dentro la generica, maleducata e antipaticissima categoria dei cazzi miei, il contachilometri della mia macchina si è mosso di una quantità irrisoria — rispetto al solito — se confrontato con le posizioni che assumeva dodici mesi fa. Ogni tanto ancora scendo in garage, le faccio una carezza e, mentre mi pulisco sui jeans i polpastrelli sporchi di polvere, le sussurro che passerà, che andrà tutto bene. Mento sapendo di mentire, perché mi hanno insegnato che esistono anche le famose bugie a fin di bene — anche se ho sempre avuto il forte sospetto che fosse una stronzata. Lei infatti non reagisce, ma mi piace pensare che la cosa in qualche modo la conforti.
Paradossi del lockdown
Cosa c’entra la ricevuta del tagliando dell’auto con il tempo che ho potuto dedicare a sollazzarmi con un po’ di nuovi album? È presto detto. Il fatto è che il momento in cui ascolto più musica, in cui me la godo, in cui riesco a riservarle la cura che teoricamente si meriterebbe è, appunto, mentre guido. Che poi ci pensi e realizzi quanto sia paradossale la cosa: quest’anno — chiuso in casa come tutti il 90% del tempo — tecnicamente sarebbe stata l’occasione per mettere invece il record di ascolti della mia vita. Così, servita su un piatto d’argento — accuratamente sanificato d’amuchina — da un benevolo pipistrello cinese. E invece.
Il problema è che non riesco a vivere la musica come un semplice sottofondo, mi sembra in qualche modo di mancarle di rispetto o comunque — se vogliamo vederla da un punto di vista più egoistico — se non le do la giusta attenzione diventa più un fastidio che altro, quindi faccio fatica a farlo — per esempio, a parte casi particolari — mentre lavoro.
D’altro canto, non sono nemmeno il tipo che si avvicina sensuale allo scaffale dei vinili, struscia leggermente il dito sulle costole mentre indugia in una scelta pensierosa, ne prende uno, lo mette sul piatto, si bagna tutto appena la testina gracchia sul solco e quindi si siede su una poltrona dedicata, munito di cuffie progettate su cavie vive e modelli di orecchio umano per ridurre al minimo la dispersione sonora e ottimizzare l’audio in uscita, offrendo un suono di alta qualità. Innanzitutto perché non c’ho tempo, poi perché — anche non avessi un cazzo da fare — l’unico rapporto che vorrei avere con la ben nota bolla del vinile sarebbe quello di bucarvela con immensa soddisfazione. Last but not least — pure cambiando la natura del supporto per evitare sterili polemiche — perché la collezione di CD che ho accumulato prima che il pensiero di una morte imminente in assenza di eredi mi portasse a rivalutare la vacuità dei beni tangibili, riposa in pace in quell’esercizio di entropia controllata che è la mia cameretta di adolescente, altrove. Son cose che impari dopo il decimo trasloco di una vita in affitto: che gli mp3 hanno una qualità accettabile — se la tua religione si ferma una tacca sotto la masturbazione sonora — si spostano meglio, e occupano meno spazio. E in ogni caso — se tutte queste motivazioni vi sembrano futili e banali — rimane il fatto che io quelle cuffie lì non posso mica permettermele.
Diciamo che son più il tipo che dal concessionario sceglie prima l’autoradio del veicolo, e dopo, quello in base all’impianto stereo offerto. Poi guido una fracca di chilometri e ascolto una fracca di dischi. O almeno questa era la routine prima che il navigatore mi segnalasse una brusca curva del contagio e mi mettesse di fronte alla realtà, ovvero che parcheggiare dentro un bilocale al quarto piano non è una grande idea. Sempre che uno non abbia propositi suicidi che coinvolgano un tubo di scappamento e un aerosol di monossido di carbonio, s’intende.
Un anno come gli altri
Spotify da te
Così è andata che quest’anno, invece dei soliti 300/350 album che mi sparo in 365 giorni, ho chiuso i conti sui 200/250. Non che siano pochi, diranno i miei piccoli drogati di streaming compulsivo, ma sempre un buon 30% in meno. Fa male, visto così, nero su bianco.
Non è comunque stato particolarmente difficile trovarne alcuni che hanno risuonato più di altri, a dimostrazione che — musicalmente parlando — tutto è stato diverso e, alla fine, niente è stato diverso.
Così, eccoci comunque qua — dopo aver passato le feste a contare i danni di una diluvio di tour cancellati (a volte ottimisticamente rimandati), esperimenti di drive-in sotto i palchi, generosi venerdì su Bandcamp e una marea indistinta di grandi e piccini, indie e mainstream, laureati in conservatorio e flautisti da quinta elementare, costretti in casa o al massimo a suonare dal davanzale, universalmente livellati allo status generico di bedroom artist — ad ammettere che alla fine, in un modo o in un altro, le canzoni sono arrivate lo stesso a destinazione, in quantità e qualità non poi così dissimile dagli altri anni, quelli che ora consideriamo normali, ma di cui a loro tempo ci lamentavamo comunque. Perché questo è quello che fanno le canzoni decenti, di mestiere proprio: arrivano a destinazione, che tu lo voglia o meno.
Quindi, bando alle ciance e… sigla! ♬🎶
Bisogna saper leggere i dati
CTS
Bòn, visto che ormai — se non si parla il linguaggio di Netflix — non c’è verso di comunicare, questo era il teaser/spoiler. Prima di partire però, come sempre, rendiamo orgoglioso di noi il Comitato Tecnico Scientifico e diamo un’occhiata globale alle statistiche e alle curve.
Scontro stato/regioni
La geografia di questa lista vede — era prevedibile, vista la densità abitativa e il PIL — tra le zone più colpite Stati Uniti (11) e Inghilterra (7), anche se i sudditi della regina mediamente occupano posizioni più alte in un’ipotetica classifica. Se aggiungiamo Canada (2), Irlanda (2) e Galles (1), finiamo con un ancora più equilibrato 13–10 tra Nord America e Isole Britanniche, qualunque cosa voglia dire. Per il resto, accogliamo la buonissima prestazione di noi italiani brava gente (5) e due inaspettati outsider: Francia (1) e Norvegia (1).
Rt per fasce di sesso
Continuano a dirci che la pandemia non guarda in faccia a nessuno ma qui registriamo un 22–8 al maschile, anche se in generale, le donne sembrano reagire meglio alle cure, nel senso che mediamente stanno sopra. E no, non nel senso che vorreste voi, brutti maiali.
Quante varianti?
Come si confà a un virus in continua mutazione, per il secondo anno consecutivo archiviamo un risultato inaspettato: 30 etichette discografiche tutte diverse. Perché anche sul vaccino ognuno vuole dire la sua, e più sperimentazioni partono, più probabilità ci sono che una vada in porto e faccia il salto di specie dal laboratorio di un’università di provincia al gotha di Big Pharma.
30. MATT BERNINGER — Serpentine Prison
Il FILF della porta accanto
Negli ultimi vent’anni, i National hanno tirato fuori un sostanzioso e regolare stipendio da un secchio di romanticissime, tristi canzoni a tema sesso, morte e autocommiserazione. Nel frattempo, orde di malinconici esperti nel ciondolare la testa a tempo si sono accasati tra le loro strofe, ben confortati da quello strano sing-a-long: testi che tecnicamente non avevano senso, ma la cui fantasmagorica costruzione faceva in maniera egregia da comune punto d’appoggio emozionale. Siamo stati e siamo tra quelli, e spesso ci siamo chiesti come fosse possibile. La risposta la sa Matt Berninger, frontman atipico — sempre vestito in maniera troppo trasandata per presenziare al funerale che sta cantando, sempre troppo elegante per riciclarsi rocker duro e puro. Con la faccia del professore di un liceo di provincia, è riuscito in una cosa in cui in pochi sono riusciti: crearsi un’identità ben definita e intanto cucire la stessa identità addosso alla band che lo stava rendendo famoso. Mentre i suoi iper-creativi compagni cercavano sempre nuove sfide (chiamatela voglia di mettersi in gioco, chiamatela Taylor Swift — non fa differenza), lui è sempre sembrato a posto così, nel suo. Il suo, da solista, suona acustico e vagamente jazzy, come una sedia anonima alla Bernie Sander da affrontare a gambe accavallate, come un wine on the rocks (esiste davvero, è una specie di sangria di Cincinnati e hanno il coraggio di chiamarla cocktail) da contrapporre al classico, machissimo, whiskey. Qualcuno vi dirà che sembrano demo dei National su cui i Dessner non hanno ancora messo le mani. Non fatevi fregare così facilmente.
Tracce caldamente consigliate: Distant Axis, All For Nothing, Serpentine Prison
29. SAULT — Untitled (Black Is)
Tutta la raffinatezza devastante della negritudine
È ormai convinzione comune che il mistero sia un lusso che rock e pop non si possono più permettere. Ci prova ancora qualcuno nel campo della musica elettronica, ma anche lì chi lo fa dura poco e — per il poco che dura — suona abbastanza ridicolo e anacronistico. Il fatto è che internet ci ha trasformato tutti in giornalisti d’inchiesta, investigatori del click pronti a smascherare chiunque finisca a sprecare inutilmente troppa fatica nel crearsi una sorta di aura enigmatica che verrà prontamente rivelata online nel giro di due thread su Reddit. Quindi giù il cappello di fronte ai SAULT, che hanno partorito tre dischi in nemmeno un anno e mezzo, senza che nessuno sia stato capace di cavare un ragno dal buco riguardo alla loro identità. Rimaniamo allora sui fatti tangibili, senza cercare per forza lo scoop da tabloid. Groove splendidamente black e vagamente dub/funk che riecheggiano rimandi a ESG e Can, voci soul e dolcezze barricadere che si piazzano a metà tra Algiers e Portishead, la Motown che si fa afrobeat psichedelico, senza mai dimenticarsi un tocco arty e un appeal smaccatamente pop. Perfezione minimale, militante e sofisticata che — senza alzare la voce — dice più di tanto chiasso riguardo alla storia di lotte e resilienza della comunità nera contro brutalità varie e razzismo sistemico. Che poi lo faccia con un appeal, dei suoni e qualche trucchetto fin troppo alla moda non dovrà mica essere per forza un difetto, no?
Tracce caldamente consigliate: Hard Life, Wildfires, Sorry Ain’t Enough
28. SALEM — Fires In Heaven
La propensione naturale a mettersi subito in pari col collasso del resto del mondo
Nel 2010 era praticamente obbligatorio avere un’opinione sui SALEM. Come nelle eterne diatribe tra panettone e pandoro, tra guanciale e pancetta, tra Beatles e Rolling Stones, bisognava schierarsi: geni o paraculi? Innovazione o semplice riciclo alla cazzo di cane? Il nome che era stato scelto per descrivere la cosa certo non aiutava a renderla credibile: witch house sapeva di emo applicato alla musica elettronica. Roba buona da ascoltare tirando due strisce di coca ben allineate su una tavoletta ouija, mentre tentavi una conversazione stonata con lo spirito di qualche caro estinto, più che per ballare sul serio. Un miscuglio di southern rap melmoso, shoegaze horror e campioni di canti da chiesa decostruiti, in mezzo a registrazioni di incidenti stradali e altri accidenti vari. Quelli bravi a scrivere a questo punto sprecherebbero l’aggettivo “distopico”, ma in pratica era la versione techno di Storie Maledette, Un Giorno in Pretura trip-hop, Chi l’Ha Visto in salsa drone. Poi, nemmeno il tempo di decidere da che parte stare, e tutto era scomparso così come era venuto alla luce. Lasciando quasi nessuna traccia, se non su Soundcloud. Allo stesso modo, oggi, Jack Donoghue e John Holland riappaiono all’improvviso, senza particolari annunci né intenzioni di revival. Il destino ottimista vuole che il ritorno coincida con i potenziali festeggiamenti del decennale del loro primo e unico album. Il fato cinico e baro che capiti in un anno come il 2020. Giusto in tempo per trovarsi perfettamente a proprio agio. Di nuovo, ad alienare e annichilire almeno tanti quanti finiranno per ispirare.
Tracce caldamente consigliate: Sears Towers, Starfall, Old Gods
27. BRAIDS — Shadow Offering
Una dettagliata lista di fallimenti tipici di chi vuole amare ed essere amato, contemporaneamente
Momenti altissimi di dream-pop coi sintetizzatori (che è tutt’altro che synth-pop, per quel che contano le etichette) e vomitate a spruzzo di stream of consciousness confusa e incazzata, bella come non mai. Chiamatele relazioni tossiche, anche musicalmente parlando, proprio tra una canzone e l’altra del disco: sanno che non possono funzionare messe in fila così, ma non riescono a fare a meno di susseguirsi l’una all’altra. I Braids hanno un debole per il melodramma, quello grave, risolvibile solo con una catarsi mentalmente squilibrata. Eppure sanno mettere il tutto sullo spartito con una grazia disarmante. Maestri dell’emozione oversize, approcciano il sensazionalismo privato di tutti i giorni con uno zelo più che teatrale, riuscendo a dare all’ansia esistenziale un taglio quasi fatato. La voce di Raphaelle Standell-Preston, in questo, aiuta. La produzione dell’ex-Death Cab for Cutie Chris Walla fa la differenza. Senza cedere di un millimetro alle mezze misure, la band canadese trova il proprio angolino caldo da cui raccontarsi facendo domande. Una forma di difesa vecchia come il mondo — eppure ancora la più efficace.
Tracce caldamente consigliate: Upheavel II, Fear Of Man, Snow Angel
26. MUZZ — Muzz
Se è stato solo un diversivo, speriamo succeda di nuovo
Per apprezzare una roba del genere bisogna innanzitutto fare un tentativo di astrazione e mettere da parte qualunque aspettativa dovuta all’assodata credibilità indie che i personaggi in questioni si sono guadagnati nel tempo. Soprattutto proviamo a evitare di tirare in ballo per l’ennesima volta il concetto trito e ritrito di supergruppo in cui “la somma è addirittura superiore al valore degli addendi”. Qui, la somma, è proprio tutta un’altra cosa rispetto ai singoli contributi. Paul Banks, Matt Barrick e Josh Kaufman non hanno niente da dimostrare e — forse proprio per questo — il loro sforzo collettivo sta in piedi da solo, a dovuta distanza dal treppiede che tutti avremmo giurato di trovare lì pronto a reggerlo. C’è il pedigree non richiesto e il talento buono per abbinare con gusto disarmante suoni classici a un dinamismo post-moderno, ma sempre senza pepe al culo. Soprattutto c’è evidente intesa e chimica naturale per prendersi i tempi e dilatare gli spazi, come dentro a quei vecchi jeans loose-fit ormai sformati che non si possono più guardare, ma che sono terribilmente comodi. Per fortuna manca tutta la sbruffoneria, le leccate di culo all’ego e l’auto-indulgenza che spesso accompagnano progetti del genere. Per capirsi, non siamo di fronte ai Velvet Revolver, insomma.
Tracce caldamente consigliate: Red Western Sky, Everything Like It Used To Be, How Many Days
25. WOLF PARADE — Thin Mind
Non è proprio ritardo, più voglia di non portare l’orologio
Il fatto che Spencer Krug e Dan Boeckner abbiano continuato a pubblicare con regolarità un botto di musica tra alter-ego e progetti paralleli ha fatto quasi passare inosservata la cosa che gli Wolf Parade — tra il 2011 e il 2017 — si erano praticamente sciolti. E questo, non è un particolare trascurabile, nel gioco sporco di giudicare l’attualità. Poi va da sè che a un certo punto devi per forza fare i conti con il tuo percorso, riconoscere da dove vieni e capire dove vuoi andare a crepare. L’introspezione del singolo è una strada, guardarsi in faccia a sei occhi un’altra. Fare entrambe le cose la più difficile. In questo senso la band canadese è ben conscia che vivrà per sembra all’ombra del proprio debutto. Anche se ripetessero Apologies to the Queen Mary, sarà sempre dopo. Anche se facessero meglio di Apologies to the Queen Mary, sarà sempre meglio di. Questo il punto, quindi: qui c’è la line-up originale del 2003 (power trio e via andare) che ha fatto un album nel 2020. Parla di cose estremamente calate nei giorni nostri con un sound che vent’anni fa sarebbe stato il salto di qualità di cui avrebbero avuto bisogno. Lo scollamento tra le due cose suona strano, a un primo ascolto. Già al secondo, suona da dio, invece — come è naturale che sia.
Tracce caldamente consigliate: Under Glass, Forest Green, The Static Age
24. MELT YOURSELF DOWN — 100% YES
Un incrocio tra il gabinetto del dottor Caligari e la cabina telefonica di Doctor Who
Non è che ora voglio star qui a sindacare su chi ce l’abbia più lungo (il sassofono, dico), ma quando si tratta di cercare campi inesplorati dove liberare l’ottone al galoppo, fuori dei canoni del jazz classico, Pete Wareham non ha niente da invidiare a un qualunque Shabaka Hutchings del cazzo. I suoi Melt Yourself Down sono ad oggi la più concreta incarnazione del concetto di “suonare post-punk col sax” dai tempi del Pop Group e 100% YES è non solo il nuovo album dei sei londinesi, ma anche la sintesi di un obiettivo giudizio al riguardo. Parla di cose serie, le suona con garra multi-etnica e nel bel mentre si inventa un linguaggio che non si può descrivere a parole, a meno di non voler esagerare con un’overdose di etichette. Che ne so, tipo “punk jazz funk afrobeat blues hip hop no wave free jazz dance psychedelic rock”. A saper disegnare, sarebbe più facile, forse. Verrebbe fuori la caricatura di Bobby Gillespie, coi rasta, il piercing al naso, un turbante tuareg in testa e in bocca — al posto di una canna — un qualunque strumento a fiato. Anzi, no. Meglio se insieme alla canna.
Tracce caldamente consigliate: Boot And Spleen, It Is What It Is, Crocodile
23. BEN WATT, Storm Damage
Chiamatela middle-age angst
Ben Watt va quasi per i sessanta, e fin qua ha avuto una vita che a noi povere bestie ce ne vorrebbero tre. Di vite dico, per pareggiare i suoi attuali 57 anni. È che a un certo punto arriva per tutti il momento di tirare le somme e — se appartieni a quella razza a cui è richiesto di farlo con un disco — di solito i rischi sono più delle certezze. Perché quando un cantautore si mette a scrivere della propria mezza età, i risultati raramente le rendono giustizia. L’ambientazione di default è una specie di malinconico rammarico, affogato in una minestra di archi sbrodolati e arpeggi tremanti, pizzicati su una chitarra acustica o schiacciati sui tasti di un vecchio piano. L’auto-indulgenza sale in gola, l’album si inchioda in panne e — in una fitta di panico — si organizza in fretta e furia una reunion che almeno vada a sbattere sicura contro il muro di gomma della nostalgia. Ben Watt, no. Sia chiaro, non che qui manchi la giusta dose di sguardi all’ombelico, appannati dai lacrimoni del ricordo. Solo che buon gusto e talento riescono da un lato a far sì che non piscino fuori dal vaso, dall’altro a suonarli come fossero altro. Roba genuina, attuale. Pugni allo stomaco e squarci di sole incazzato. Se nel 2020 avete ascoltato canzoni migliori di queste, siete stati fortunati. Davvero fortunati.
Tracce caldamente consigliate: Summer Ghosts, Retreat To Find, Figures In The Landscape
22. ULVER — Flowers Of Evil
Giusto per ribadire che si può ballare anche al buio della decadenza
Forse è arrivato il momento di smetterla con quella storia che ci racconta quanto una band del genere è innovativa e sperimentale nei confronti di un qualunque concetto di black metal. Non porta niente di buono: né agli Ulver (da cui ogni volta finiamo per aspettarci un monthy-pythoniano qualcosa di completamente diverso rispetto a quella precedente — altrimenti va a farsi fottere tutta la narrativa dei visionari che gli abbiamo cucito addosso), né tantomeno al black metal stesso (che ne esce sempre come quella cosa che a un certo punto non basta più e a cui bisogna in qualche modo andare oltre). Kristoffer Rygg e soci lo hanno in un certo senso completato, il black metal. Poi hanno deciso semplicemente fare altro. Non possiamo ora appioppar loro la colpa della mera e pura evidenza che siano parecchio bravi anche nel fare — appunto — questo ipotetico altro. I Darkthrone non son mai passati alla disco. Ai Mayhem non è saltato in testa nemmeno per un secondo di provarci col funk, o col jazz. Il problema è che qualunque cazzone con una pianola può mettere tre note in fila e chiamarle ambient — è piuttosto facile, Varg Vikernes c’è sguazzato di gusto mentre ammazzava il tempo quando era in prigione perché aveva ammazzato qualcosa di più grave del tempo. La musica pop, invece, non è per niente facile. E questo è synth-pop sopraffino, di altissimo livello. Stàtece regà.
Tracce caldamente consigliate: Russian Doll, Machine Guns And Peacock Feathers, A Thousand Cuts
21. CAR SEAT HEADREST — Making A Door Less Open
Spacciarsi per un alter-ego e provare a vedere se la gente si dimentica di te sperando ovviamente che no
Inscenare la propria scomparsa, ovvero un grande classico della della rock star sopraffatta dalla fama. D’altra parte il sentirsi una merda a prescindere è da sempre alla base della poetica di Will Toledo. E allora ogni scusa è buona per sentirsi una merda, a prescindere. Prima la mancanza di successo, ora il troppo successo. Chi è senza peccato scagli la prima pietra e poi finga di essere stato colpito per farsi commiserare. Quindi aggiunga un pizzico di elettronica q.b. come variazione sul tema di quella roba ormai da boomer chiamata chitarre e metta a reggere la baracca un misterioso tizio bionico mascherato da Harry Warden, pronto per competere nell’immaginario collettivo con tutto il pop e l’hip-hop che hanno scaraventato le rock band lontano dallo zeitgeist. Perfetto. Non fosse che Trait scrive, suona e canta esattamente come Will Toledo, e questo certo non aiuta a il nuovo album dei Car Seat Headrest a non sembrare un album dei Car Seat Headrest. Il fatto poi che l’album in questione esca a nome Car Seat Headrest complica ancora di più il contesto in questo senso e difficilmente verrà ricordato come una delle idee migliori nella storia dei depistaggi. Ma tant’è. Non che la cosa sia un problema, visto che in giro — a parte Will Toledo — tutti chiedevano nient’altro che l’ennesimo album dei Car Seat Headrest.
Tracce caldamente consigliate: Deadlines (Hostile), Hollywood, Deadlines (Thoughtful)
20. DEEP SEA DIVER — Impossible Weight
Indie proprio malgrado
È un mondo difficile, si sa, quello del music business. Al punto che devi essere disposto alle peggio cose, pur di sbarcare il lunario. Anche a fare la turnista per Beck, gli Shins e gli Yeah Yeah Yeahs quando invece il talento vero per sfondare da sola ce lo avresti eccome. Lo so, c’è di peggio — come direbbe un ex-minatore costretto a riciclarsi rider di Glovo dopo un licenziamento per ingiusta causa — ma se sai suonare in pratica tutti gli strumenti e mentre li suoni riesci pure a cantarci sopra con una voce della madonna — cazzuta e allo stesso tempo emozionante — un po’ le palle girano. E invece. Davvero, cosa non si fa per campare. Jessica Dobson le ha provate tutte — per dire, anche un taglio di frangetta alla Karen O, rimanendo in tema di YYY — ma i suoi Deep Sea Diver sono rimasti una questione che è andata poco oltre la natia Seattle. Giustamente, per non sbagliare, l’album che avrebbe potuto sul serio cambiare le carte in tavola ha pensato bene di partorirlo nell’anno della più grave pandemia mondiale dopo la Spagnola del 1918. Quando si dice il tempismo.
Tracce caldamente consigliate: Lights Out, Impossible Weight, Switchblade
19. VOINA — Ipergigante
Storie dal bar sotto casa buone per scappare dal bar sotto casa
È il massimo di luminosità che una stella qualunque raggiunge prima di diventare un buco nero, quando si rompe i coglioni sul serio e manda tutto il resto dell’universo affanculo. Ma senza esplodere. Implodendo, appunto, nel tentativo di risucchiarsi quel che ha intorno, che sai mai possa tornare utile, se ci sarà un futuro. Il futuro dei Voina non liscia troppo il pelo al proprio passato, nel senso che di punk qui c’è rimasta giusto l’essenza. Ed è comunque più che sufficiente. La rabbia diventa onesto cinismo disilluso, le urla hanno perso il fuoco del bersaglio contro cui sputarsi, la guerra generazionale ridotta a battaglia privata — se non persa, quasi. Ci sono le chitarra acustiche, basi e schegge proto-trap, un mezzo rap, chili di emo. C’è la provincia, l’old school, la new school, ritornelli che fanno il loro dovere e metafore impietose che ti cavano il cuore dal petto. Inspiegabilmente, il tutto sta bene insieme. Lo chiamano diventare adulti. Dicono sia spesso doloroso. Comunque difficile da rimandare. A conti fatti, benvenuto per forza.
Tracce caldamente consigliate: Stanza, Uragani, MDMA
18. KELLY LEE OWENS — Inner Song
Consumarsi nei particolari perché la perfezione è asintotica
Kelly Lee Owens continua a coccolarsi il demone a lei più caro: una sorta di autismo ostinato e terapeutico che la porta a lavorare sui dettagli fino ad arrivare a quel punto di non ritorno in cui non c’è più nessun dettaglio su cui poter mettere le mani. Perché lì sta il diavolo, appunto. E diabolica è la sua maestria nel riuscire a rivelare le briciole atomiche di inferno che stanno in qualunque granello digitale, senza mai però scollinare nel baratro della musica depressiva. Le sue canzoni iniziano in un posto e finiscono sempre altrove, e il modo con cui lavora i livelli da campionare uno sopra l’altro appare semplice ma è tutt’altro che semplicistico. È, piuttosto, una costruzione intuitiva, ricamata su scala microscopica: ogni singolo, minuscolo suono sboccia in maniera ricorsiva, diventando adulto grazie a iterazioni che variano costantemente sul proprio stesso tema, per accumularsi via via in un tutto sempre più ben delineato, seppur in costante dilatazione. Paga zero, un approccio alla scrittura del genere, al giorno d’oggi. Il suo valore, però, è inquantificabile.
Tracce caldamente consigliate: Arpeggi, Jeanette, Flow
17. LORENZO SENNI — Scacco Matto
Il Kasparov dell’elettronica viene dalla Riviera
Dalla scena hardcore punk di Rimini al élite dell’IDM internazionale. Pare un titolo clickbait wannabe da Gazzetta della Romagna e fa già ridere così. Eppure, volendo riassumere questa storia andando subito al sodo senza sprecarsi in fronzoli, è esattamente il verso che hanno preso le cose. Dopotutto si sa com’è la provincia: divisiva ma non troppo. Ti attieni alla filosofia straight edge in sala prove, ma poi al baretto giochi a Street Fighter con i gabber. Prendi tutto e porti a casa, senza discriminazioni. Vuoti il sacco sotto forma di sample appuntiti, ribalti la filosofia che vuole la dance mainstream focalizzata esclusivamente sul prossimo crescendo, ma alla fine riesci comunque a onorare la purezza dell’unico, vero risultato che si richiede all’electro — provocare la risposta più spontanea, intensa ed entusiasta in termini di movimento di culo. In questo senso, immaginatevi le due parole scandite con la compostezza sorniona di un russo che vi ha rovinato l’arrocco e ammazzato la partita: Scacco Matto è una sentenza definitiva, più che un album.
Tracce caldamente consigliate: Discipline Of Enthusiasm, The Power Of Failing, THINK BIG
16. SILVERBACKS — Fad
Arrivare tardi alle feste come stile di vita
In parte è un gioco a cui tutti amiamo prestarci, un po’ una necessità di cercare qualche punto di riferimento, a volte magari una scappatoia facile contro la mancanza di argomenti. Sto parlando del vizio più diffuso tra la critica musicale: cercare similitudini, elencare influenze, rivelare la ricetta di una band utilizzando come ingredienti altre band presenti o passate, abusare di aggettivi come “derivativo”. Ci siamo cascati tutti, senza pentircene quasi mai. Ecco, per una volta possiamo mettere da parte i rimorsi, perché è esattamente quello che i Silverbacks ci chiedono di fare, praticamente in ginocchio. Deve entrarci qualcosa il fatto che qui siamo di fronte a un’eccezione: un disco di debutto da parte di gente che ha trent’anni passati. In altri termini, gente che ormai ha perso quel momento in cui poteva prendersi davvero sul serio e preferisce giocare a nascondino con indizi, citazioni e allusioni sparse tra le note e i versi (se dico “Korea” a quanti fan dei Pavement si drizzano le orecchie?), senza mai comunque scadere nel cosplay. Ad ascoltare roba così vengono in mente almeno un centinaio di band post-punk o indie-rock, ma il fatto è che non riesci nominarne o a metterne a fuoco nemmeno una senza almeno una punta di dubbio. O meglio, sai bene chi ma ti sfugge il quando e il come ti è salita in testa l’analogia. E questa è esattamente la definizione di un collage fatto a regola d’arte.
Tracce caldamente consigliate: Pink Tide, Fad ‘95, Up The Nurses
15. FLAMINGO — Komorebi
Ci sono una friulana, un giapponese e dei milanesi
La sottile e dolcissima barriera di incomunicabilità di un occidentale nella terra del Sol Levante esula qui dalla sceneggiatura di una barzelletta e si adagia sul livello di racconto prima — quello di ragazza con la chitarra che diventa una donna capace di scrivere canzoni con la “C” maiuscola — e del resoconto subito a seguire — quello di un ritorno a casa che si fa band e debutta sulla lunga distanza con la consapevolezza del veterano. Le atmosfere ricordano i Daughter e gli XX, la voglia di autodeterminazione i Savages, ma la rabbia di fondo ha qualcosa che va più indietro nel tempo. A quegli anni Novanta che hanno lasciato il segno anche su chi era appena nato e il cui riflusso difficilmente perdona chi si è trovato nei paraggi. Non a caso dietro le chitarre c’è la mano distorta di Xabier Iriondo, certe esplosioni pop aggressive stanno dalle parti dei migliori Garbage, mentre la produzione (e la batteria) di Giacomo Carlone non avrebbe niente da invidiare a Butch Vig. A parte il budget disponibile, s’intende.
Tracce caldamente consigliate: Rose, Wish You The Best, The Wind Cave
14. THROWING MUSES — Sun Racket
Essere dei cattivi sognatori permette se non altro di sognare la stessa cosa per sempre
Trent’anni insieme e questo è solo il decimo album. Ma forse sta proprio lì il segreto per non finire a darsele di santa ragione, prima in cucina e poi in tribunale. Fare le cose con calma, prendersi le proprie pause, passare qualche dopocena a leggere un libro sul divano invece che obbligarsi a scopare tutte le sere. Insomma, la solita lista di banalità da venerare — finché morte non ci separi — sull’altare dell’unica cosa più rara dell’orgasmo simultaneo: il matrimonio che funziona. Kristin Hersh ci mette una riga, a riassumere il tutto: «If I were a better dreamer, you’d be a dream come true.» Perché sognare stanca solo se i sogni diventano realtà, e ascoltare i Throwing Muses oggi è un esercizio di trust fall col culo parato. Un inutile ossimoro, direbbero quelli pignoli esperti di team building, e invece proprio la cosa di cui abbiamo bisogno in questo momento. Buttarsi con al collo il dubbio che là sotto non ci sia nessuno a prenderci, ma la ragionevole sicurezza che, anche se finissimo a battere il muso per terra, non ci faremmo poi così male.
Tracce caldamente consigliate: Dark Blue, Maria Laguna, Frosting
13. WOODKID — S16
Un cuore meccanico che pompa petrolio fin dove il sangue non sa più arrivare
Il simbolo chimico e il numero atomico dello zolfo, elemento base della vita — ma anche della (auto)combustione — per riassumere un ritorno in grande stile, spettacolare ed epico, eppure allo stesso tempo intimo e introspettivo. Un ritorno che si è fatto attendere e che quindi, nel frattempo, ha visto succedere intorno la qualunque: la realtà è cambiata e Yoann Lemoine si è adattato di conseguenza. Senza mettere da parte il gusto per l’enfasi e la sontuosità, ha alzato il piede dall’acceleratore, dilatando le atmosfere e scandendone i tempi cupi con suoni metallici e rasoiate industriali. A rendere il tutto facilmente digeribile è rimasta la sua voce — affascinante, soul e precisa come non mai — guida ideale per una riflessione non solo estetica sulla contrapposizione (e la sovrapposizione) tra l’infinitamente grande e l’infinitamente piccolo. Coesiva e maestosa, carezza il cuore senza fare sconti alla mente e ci mette di fronte consapevolezza di aver creato dei mostri e alla responsabilità, individuale e collettiva, di trovare il modo di sconfiggerli. Ammesso che non sia già troppo tardi.
Tracce caldamente consigliate: Goliath, Highway 27, Drawn To You
12. BAMBARA — Stray
Se fosse un fumetto sarebbe Sin City
Un alieno teletrasportato sulla Terra nel 2020 farebbe fatica a crederlo, ma c’è stato, a suo tempo, anche un Nick Cave diverso dal signore in smoking chino sulla solitudine di un pianoforte sperduto in una piazza deserta, provato dalla vita ma non per questo meno pronto a ricevere una beatificazione quasi mistica. Per fortuna che i Bambara son qui a ricordarcelo, senza perdersi in ridicole imitazioni o scontati equivoci, ma snocciolando la loro rilettura post-punk — anfetaminica, annoiata, tossica, eppure sincera e in qualche modo diversa — di un periodo in cui le parole bad seed avevano dentro qualcosa di malato davvero e le feste di compleanno erano all’insegna di rabbia ed eroina — pericolose, ma molto più divertenti. Una narrativa nera, minimalista e affilata, fatta di riferimenti letterari ben precisi e sempre disposta a concedersi il lusso di guarnire il dramma con qualche colpo di scena surrealista. Personaggi rotti che salutano affannati, sullo sfondo di storielle che tutto si aspettano meno che una fine. Prendetevela col destino porco, se sanno di déjà-vu.
Tracce caldamente consigliate: Serafina, Death Croons, Made For Me
11. PORRIDGE RADIO — Every Bad
Andrà tutto meme
Ne usciremo migliori? Dana Margolin prova a pararsi il culo buttandola sui desideri da Instagram story: «I don’t want us to get bitter, I want us to get better», ma il problema è che lo fa con quella voce. Svolazza indisturbata tra esasperazione sfinita e disillusione esausta e quello che poteva essere un sentito augurio buonista suona più come una livorosa chiosa sardonica — non la scritta su un lenzuolo da appendere a un balcone, piuttosto la crisi di nervi in diretta di un presentatore della Melevisione costretto a raccontare fiabe su Zoom. Ecco, anche il resto è così dall’inizio alla fine, se dio vuole. Allegri accordi tintinnanti nelle loro distorsioni giusto accennate, smentiti in tempo reale da un cuore nero che finisce per strangolarsi e rischiare di soffocare nel proprio sarcasmo. Parole e rumore abilmente usati per creare mantra meme-ready da urlarti in faccia col sorriso sulle labbra. Tutto racchiuso nello spazio ristretto e dolceamaro che sta tra post-punk, indie-rock e dream-pop. Avant-garde confuso ma sempre accorto. Quindi pronto a strizzare l’occhio al mainstream.
Tracce caldamente consigliate: Born Confused, Nephews, Lilac
10. DOVES — The Universal Want
Cinquantenni che adescano cinquantenni così nessuno si fa male
Con lo stupido beneficio del senno di poi, possiamo dire che il successo dei Doves di inizio millennio si reggeva quasi esclusivamente su un gioco di ruolo. Lo stesso che era toccato alla generazione dell’acid house a metà anni ’80 o ai grandi cantautori dei Seventies: gente il cui compito era offrire una colonna sonora a uno dei più delicati passaggi dell’esistenza — quel momento intorno ai trenta in cui non puoi più spacciarti per giovanotto e l’urgenza edonistica lascia pian piano spazio ai ben più banali e pressanti compiti della vita grama. L’abilità a targetizzare una particolare fascia demografica, insomma — per dirla con le parole di un guru degli annunci sponsorizzati su Facebook. Con vent’anni in più sul groppone, noi dovremmo avere ormai imparato il trucco. Loro, almeno provare a comprarci con qualcosa di diverso, partendo dal presupposto che il trucco l’abbiamo sul serio imparato. E invece siamo tutti cresciuti per modo di dire, clicchiamo sempre sui soliti quattro video di gattini e la magia di quell’antica, splendida, catchy melancholia è più viva ed efficace che mai.
Tracce caldamente consigliate: Carousels, Broken Eyes, Prisoners
9. CALIBRO 35 — MOMENTUM
Gli stati generali della nostra attualità musicale
I suoni di oggi e di domani, l’atteggiamento di chi ha ancora qualcosa da sperare. Perché se si stava meglio quando si stava peggio, allora vuoi vedere che anche il nostro derelitto qui e ora potrebbe non buttare poi così male? Non è un esercizio semplice, mi rendo conto: serve uno sforzo di fantasia in cui mischiare musica e spazio/tempo e ci siamo sempre meno avvezzi. A sforzarsi con l’intelletto, intendo. Ma d’altra parte, con i Calibro 35 è stato così fin dall’inizio. Gente con un talento fuori dall’ordinario, che continua ad avere il buon gusto di rimanere viva, vegeta e pimpante nella testa forse ancor più che nelle mani. E vi assicuro che questi con le mani ci sanno davvero fare. Così, in un Paese di cervelli in fuga, eccoci di fronte alle menti migliori della nostra generazione che si prendono la briga di togliersi passamontagna e — stanchi di rileggere il passato con gli occhi di chi ha saputo capirlo — in un atto di generosità verso il futuro, donare tutto al presente. Solo una domanda rimane in sospeso: cosa abbiamo fatto di così buono per meritarci tutto questo?
Tracce caldamente consigliate: Glory-Fake-Nation, Death Of Storytelling, Fail It Till You Make It
8. LO TOM — LP2
Il rock da stadio giusto nel momento sbagliato
Un supergruppo indie. Ovvero un ossimoro già in partenza, per la cosa più anacronistica dell’anno. Riassumendo per sommi capi: mentre intorno era tutto un proliferare di home shows che ci hanno portato — volenti o nolenti — a salire insieme sul carro che ancora vede scritto sulla fiancata “small is the new big” David Bazan rimetteva in piedi un progetto che, con il suo secondo capitolo, pare trovarsi del tutto a proprio agio guardando in una direzione completamente opposta, e cioè quella della grandeur esplosiva del classico big rock. Chitarre ben incollate agli amplificatori e un approccio che si pone perfettamente a metà tra le grattate soniche di Bob Mould quando stava nei Sugar e i picchi di smalto commerciale degli Heartbreakers di Tom Petty ai tempi in cui volevano essere il più MTV-friendly possibile. Giusto in tempo per l’inizio di un campionato senza pubblico, melodie e riff da arena-rock, che se fossero uscite a nome Foo Fighters gli stadi avrebbero finito per riempirli sul serio. Nonostante i divieti o gli ingressi tristemente contingentati. Su le mani.
Tracce caldamente consigliate: Start Payin’, I Need Relief, No Margin Of Error
7. ALGIERS — There Is No Year
Un nuovo gospel a gamba tesa, che sa di molotov col silenziatore
Non puoi stare in piazza a tirar sassi tutta la vita. La voce si fa roca a forza di urlare e le scritte sugli striscioni sbiadiscono alle intemperie. È successo qualcosa del genere anche agli Algiers? Sì da un lato, manco per il cazzo dall’altro. E grazie a dio in entrambi i casi. Certo, hanno aggiunto un po’ di funk che rendesse la rivolta più ballabile e oggi sotterrano il tutto sotto una spolverata di zucchero a velo soul, che potrebbe trarre in inganno e dare l’impressione di voler alleggerire l’intera questione. Il fatto è che la questione stessa non sta in quanto sei incazzato. Franklin James Fisher e compagni mai hanno avuto la pretesa di istigarci con manifesti eclatanti e forconi appuntiti. L’idea è sempre stata piuttosto quella di provare a risvegliare le coscienze dalla loro confortevole, poco rischiosa, beata incoscienza. Mettere la testa fuori dal coro e — sopra quella del coro stesso — alzare la voce per raccontare la propria versione dei fatti, senza curarsi se fosse piacevole o meno. Chiamarli, adesso, radical chic dimostra solo quanto non ci abbiate capito un cazzo fin dall’inizio.
Tracce caldamente consigliate: There Is No Year, Dispossession, Unoccupied
6. PAOLO BENVEGNÙ — Dell’odio dell’innocenza
L’importanza di scavarsi la schiena, lentamente
Raccontare non è un’arte semplice. Quando poi le parole da mettere in fila sono pesanti come macigni, non puoi permetterti di affidarti ai dilettanti. Serve gente che con le parole ha un rapporto di amore/odio, e l’innocenza colpevole cresciuta in anni di esperienza sul campo. I calli sulle mani, sulla lingua, sulle labbra e il respiro scavato che ti resta solo se hai avuto il coraggio di dirle — le parole giuste — anche e soprattutto alle persone che più ti avevano deluso. I tuoi simili, per esempio. Serve un perfetto inno all’attesa come questo — sincopato, nervoso, sapientemente macchiato da aperture melodiche di (in)aspettato lirismo. Servono nitide vibrazioni di allarme e strappi strappacuore di ingorda dolcezza. Asciugare le forme in un essenziale complesso, per toccare corde profonde di un’epoca che è il tema cruciale dei suoi stessi giorni. Distanziamento reciproco e lento, passo dopo passo all’indietro, guardandosi negli occhi fino a chiudere il cerchio ricongiungendosi nello sfiorarsi di schiena.
Tracce caldamente consigliate: Pietre, Infinito 3, Infinitoalessandrofiori
5. Fontaines D.C. — A Hero’s Death
Jet-black comedy in piedi sul bancone del pub
Nemmeno un anno fa hanno preso l’asticella dell’indie-rock più o meno mainstream e l’hanno messa altrove — dove gli altri devono sporgersi in punta di piedi e in precario equilibrio anche solo per toccarla. Adesso, a guardarsi indietro, scappa loro da ridere quasi avessero alle spalle una carriera ventennale. D’altra parte, nel giro di pochi mesi, gli scalini di una carriera standard li hanno saliti a tre a tre senza inciampare, e che riescano subito a vedere l’ironia della cosa è solo un buon segno. Poi va da sè che da ridere non ci sia una beata minchia, al momento, e infatti l’approccio al successo improvviso è di chi è già arrivato a una finale, bellissima disperazione. Inebriante, senza paura di risultare lateralmente buffo, maniacale o sdolcinato, anche quando invece faresti meglio a prenderlo sul serio. Un filmetto horror girato come una commedia nera: nichilismo spensierato ma mai esasperato, ribellione (s)composta eppure sempre empatica. Dicono che le nuove generazioni son costrette a maturare presto, per forza di cose. Stai a vedere che è un bene.
Tracce caldamente consigliate: I Don’t Belong, You Said, No
4. CORIKY — Coriky
I Fugazi dopo i Fugazi
Così hanno provato a venderceli. Ma i Coriky non sono né i Fugazi con una donna alla batteria, né gli Evans con un bassista in più. Sono qualcosa di confortevolmente familiare e di mai sentito allo stesso tempo. Melodie sghembe e asciutte, linee scure che vanno via morbidissime, voci note che rimettono la sguaiatezza punk ancora una volta di fronte ai propri principi morali. Lo chiamavano straight edge, ora sa di un modo desolato e depresso — eppure estremamente accurato — di guardare da fuori a come la gente (non) funziona al giorno d’oggi. Ian McKaye, la moglie Amy Farina e il vecchio compagno di merende leggere e bevute rigorosamente analcoliche Joe Lally prendono la disillusione cronica e ne fanno una tattica di sopravvivenza psicologica. Il concetto è buffo e in un certo qual modo rassicurante, nella sua semplicità realista. Suona quasi trionfale, mentre accetta la sconfitta. Per farla breve: andrà tutto bene? Il problema non si pone e la domanda è mal posta, visto che è ormai da un po’ che tutto è già andato in vacca irreparabilmente. Com’è che nessuno ci aveva ancora pensato?
Tracce caldamente consigliate: Clean Kill, Hard To Explain, Last Thing
3. SOPHIA — Holding On / Letting Go
Essere felici solo quando tutto va a scatafascio
Comincia con un mezzo inganno, perché non è mai una buona storia se non sei capace di scherzarci su fino alla fine. Poi tutto torna nei binari fatti apposta per le tue scarpe, nella solita, perfetta risonanza con quella cosa che ti batte in petto mentre cerca di accendere un fiammifero dentro emozioni espanse in slow motion, ma finisce solo per inzupparsi l’orlo dei pantaloni in una miriade di dolci, piccole pozze di sangue che costellano il pavimento. Ci metti un attimo, a capire che il sangue è il tuo, ed è come tirare un sospiro di sollievo. Pochi autori (Ben Gibbard, Greg Dulli, Matt Berninger) sanno creare il proprio unico paesaggio con due parole come Robin Proper-Sheppard. Ancora meno (Micheal Stipe, Will Sheff, Conor Oberst) sanno spacciarlo in maniera credibile per quello di chi ascolta, come Robin Proper-Sheppard. Se siamo arrivati qua senza ammazzarci prima, è merito di Robin Proper-Sheppard. Se domani troveremo il coraggio di farlo con cognizione di causa, sarà comunque merito di Robin Proper-Sheppard. Sophia è il nome di donna che ci scopriremo a sussurrare quel giorno. Poteva andare peggio.
Tracce caldamente consigliate: Alive, Gathering The Pieces, Road Song
2. GHOSTPOET, I Grow Tired But Dare Not Fall Asleep
Dormire con un occhio aperto, meglio due
Ghostpoet ha sempre avuto un certo talento per dissezionare il malessere moderno e in tasca i ferri del mestiere giusti per anticiparlo. Qualcuno dice che ha l’occhio lungo, qualcun altro che porta sfiga. Il fatto è che non era poi tanto difficile prevedere il disastro, pandemia o meno. Così ecco la colonna sonora perfetta di qualunque quarantena, fatta di gelidi automatismi post-punk messi a macerare in una salamoia genericamente hop (hip o trip, non conta più ormai). La firma Obaro Ejimiwe e — nel contesto attuale — suona come la profezia di un Nostradamus tardocapitalista. Brillantemente prodotta, tematicamente solida, visionaria e preveggente, acuta e quasi sarcastica a tratti, affronta — con aplomb inconsueto anche per un londinese — temi scottanti come isolamento iperconnesso e apprensione senza futuro. Suona familiare? Di buono c’è che, a modo suo, riesce a rendere il tutto quasi affascinante. Ma se state cercando qualcosa che vi dia sollievo e vi tenga al sicuro dall’ansia diffusa che da un po’ ci fa da non richiesta coinquilina, scappate a gambe levate.
Tracce caldamente consigliate: Nowhere To Hide Now, When Mouths Collide, I Grow Tired But Dare Not Fall Asleep
1. Sorry — 925
Gente da prendere sul serio anche se fa di tutto per non essere presa sul serio
Asha Lorenz e Louis O’Bryen trasudano da tutti i pori la stessa irresistibile combinazione di sarcasmo, genio mascherato da stupidità ammiccante e chili di questioni aperte sul fatto che ci siano o ci facciano che attraversa tutti i loro pezzi. Onnivori ma sempre austeri sotto i baffi, hanno assorbito tutto quello che si sono trovati anche solo a sfiorare e rimescolato ogni cosa (post-punk, pop, jazz) in una personale — ironica ma del tutto consapevole — aggiornatissima versione di quello che una volta si chiamava indie-rock. Poche giovani band sanno mettere nero su bianco la loro ambizione a diventare un cliché con questa determinazione spudorata. Ma d’altra parte poche band odierne sono ambiziose come questa. I Sorry adorano prendersi per il culo e prendere per il culo la storia della musica tutta, ma dimostrano di avere il talento per poter andare oltre la semplice gag. Se poi siete di quelli che non sanno stare al gioco e sostengono che dovrebbero invece scusarsi di tanta sfrontatezza, forse non avete visto bene come si chiamano.
Isolamento domiciliare
I risultati dei tampone rapido al drive-through
Come al solito, questi sono solo i casi più eclatanti di una classifica che è una classifica per modo di dire. Nel senso che sì, ci sono i numeretti e una parvenza di ordinamento, ma è più un pro-forma che altro. Ci son piaciuti tutti e trenta. E mica solo quelli. Perché è vero che abbiamo — io e il mio copilota immaginario — guidato meno e di conseguenza ascoltato meno dischi, ma c’è lo stesso un bel calderone di gente che è passata comunque sotto il nostro screening ed è risultata positiva. In senso buono.
Per esempio, in ordine rigorosamente sparso:
Nada Surf, EoB, Wire, Eels, Caribou, Bright Eyes, EMBR, Yves Tumor, Crippled Black Phoenix, Paradise Lost, Luke Haines & Peter Buck, Human Impact, Greg Dulli, IDLES, METZ, Thurston Moore, Torres, Mark Lanegan, Mrs. Piss, The Big Moon, Humanist, Deap Lips, Baxter Dury, Rolling Blackouts Coastal Fever, Future Islands, Travis, Birthh, Bombay Bicycle Club, Stephen Malkmus, Jordana, And You Will Know Us by the Trail of Dead, Pinegrove, Drive-By Truckers, Ultraísta, Califone, Public Enemy, Amnesia Scanner, Tricky, Protomartyr, Jarv Is..., Run The Jewels, Ellen Allien, Squarepusher, Of Montreal, Against All Logic, Big Scenic Nowhere, The Pineapple Thief, Thievery Corporation, Shopping, Harkin, The Flaming Lips, Awolnation, Wrekmeister Harmonies, Pearl Jam, King Krule, Molchat Doma, Hodge, Maserati, Phoebe Bridgers, The Strokes, Laura Marling, Grimes, Spinning Coin, The Howling Hex, Lanterns On the Lake, Islet, Acid Mammoth, Ital Tek, Tycho, Waxahatchee, Wasted Shirt, Phantogram, Ásgeir.
Molti di loro fanno capolino in questo mixtape che è — senza se e senza ma — il sottofondo perfetto per ballare soli e scalzi sul tappeto del salotto deserto, mentre la televisione senza audio manda le immagini dell’ennesima conferenza stampa del premier o i segnali evidenti di una crisi di governo wannabe al ritmo di una maratona-Mentana.
Dura sei ore e mezza e quindi — facendo un paio di conti — copre quasi per intero il tempo del coprifuoco. Secondo voi, se uno volesse ascoltarlo in macchina, vale come autocertificazione?
Chiedo per un amico.