6 dischi italiani che ci son piaciuti quest’anno

Galline vecchie (per lo più), ma buon brodo (per lo meno)

Spineless Laugh
16 min readJan 12, 2018

Raz Degan

L’imbarazzo di avere poca scelta

Prima di partire mi tocca fare la solita, dovuta premessa: quando parlo di “dischi italiani”, intendo dischi cantati in italiano. Qui provo anche a spiegare perché — con scarsissimi risultati in termini di chiarezza, tra l’altro.
Abbiate pazienza.

Dicevo.
Se parlando dei dischi cantati in inglese (o comunque in un’altra lingua) facevo lo splendido pavoneggiandomi del fatto che, nel selezionarne una trentina, ero addirittura uscito dai confini di quel lusso — per il quale non si rende mai abbastanza grazie a Dio, quando si prende la briga di degnarci della sua presenza — ai più noto come imbarazzo della scelta, con quelli italiani le cose sono andate un po’ diversamente.

Non che abbia fatto fatica a scovarne cinque decenti (ne ho trovati addirittura sei! — dove “decenti” è un eufemismo provocatorio, uno in particolare è un capolavoro assoluto, un altro il giusto omaggio a una manciata di capolavori, gli altri tre tanta roba pure loro, più una new entry dell’ultima ora che ha piacevolmente sballato tutti i conti e le simmetrie), ma diciamo che, poco oltre quelli, la situazione che mi son ritrovato tra le mani mi è sembrata un po’ più spenta del solito: non proprio al limite della raschiata sul fondo del famoso barile, ma comunque abbastanza in bilico su un’aria deboluccia ed enfisemica. Un po’ come quando vedi qualcuno e lo avvicini preoccupato, mettendolo subito a suo agio con un calorosissimo: “Ehi! Tutto a posto? C’hai una faccia…”

Sarà che davvero è stato un annus horribilis per la musica italiana? Non credo. Sarà che tutti quelli bravi hanno deciso all’improvviso di cantare in inglese? Non credo nemmeno questo. Sarà che quest’anno ho ascoltato molta più roba straniera e un po’ meno ciccia a chilometro zero? Più probabile. Perché? Non so perché, e in ogni caso sono fatti miei.

Elsa Fornero

Il bicchiere della staffa

Scusate.
Poso il bicchierino dell’amaro, mi ricompongo facendo il nodo alla cravatta di tutti i crismi della buona creanza e gentilmente ribadisco che sul serio non lo so: è andata così.

Però la cosa che comunque mi fa pensare, è che, senza farlo apposta, mi son trovato ad ammettere che le robe migliori nel 2017 — sempre parlando di canzoni declamate in una lingua più o meno (meno) comprensibile anche al senatore Razzi — le ha tirate fuori (a parte una minuscola eccezione che brilla come la speranza sotto le briciole dorate del Gratta & Vinci) gente di una certa età, che suona da più di vent’anni e ormai sta scalando la cima (irraggiungibile come l’orizzonte) di quel miraggio chiamato pensione di anzianità. Anzi, a dirla tutta — spoiler alert ma non troppo — la cosa migliore in assoluto (quasi commovente, direi) è addirittura una raccolta di pezzi proprio scritti almeno vent’anni fa. Insomma, non una buona notizia per il welfare musicale di questo paese, dove la gente non fa più dischi bambini, mentre i veterani decrepiti continuano a scrivere cose bellissime senza la minima intenzione di tirare le cuoia.

Sarà che i giovanotti indie-italici non hanno più niente da dire? Non credo. Sarà che preferiscono sperare nel reddito di cittadinanza invece che sudare in una sala prove senza aria condizionata? Non credo nemmeno questo. Sarà che sono un vecchio bacucco malato di nostalgia, che ormai ha le orecchie deformate su note anziane come lui e non riesce più a distinguere lo sbocciare di nuove forme altrettanto valide e promettenti? Più probabile.

Anzi no.
Più probabile un cazzo.

06. BRUNORI SAS, A casa tutto bene

06. BRUNORI SAS, A casa tutto bene

E invece no

Dario Brunori scrive canzoni solo apparentemente poco intelligenti, di quelle che ti pare di capire subito la prima volta che le ascolti. E invece no. Come ama dire lui — con l’autoironia che da sempre lo contraddistingue, quella che gli fa riempire il lato D della versione in doppio vinile di A casa tutto bene con “venti minuti di silenzio per riflettere sul capolavoro che avete appena ascoltato” — “canzoni tanto per cantare”. Che poi, mica sarebbe poco, scrivere canzoni tanto per cantare, in un’epoca in cui tutti tendono a caricare di significati improbabili (e quasi sempre campati in aria) qualunque puttanata che riescono a mettere su un disco. D’altra parte, è facile lasciarsi andare a considerare il cantautore calabrese come una voce narrativa e poetica che non lascia il segno, con la sua ossessione per le rime baciate portata all’estremo e adagiata su melodie quasi sempre prive di nervi scoperti, ammiccante colonna sonora di un’estetica da finto loser che alla fine dei conti (soprattutto quelli al botteghino) vince sempre. E invece no. A dirci che A casa tutto bene sarebbe stato un disco diverso c’era già il titolo, che, abbandonando la denominazione in “volumi” dei primi tre lavori, già nelle intenzioni dichiarava di voler evitare di accusare la stanchezza di una formula che avrebbe potuto rischiare di entrare in un loop pericoloso, omaggiandolo a prescindere dei galloni di padrino di un nuovo movimento acustico di provincia immigrato nella grande metropoli dell’indie nostrano. Diverso, in primo luogo, per la scrittura, capace di manifestare un grado di consapevolezza mai raggiunto in passato. Le storie del quotidiano, quelle notoriamente care a Brunori, sono infatti qui filtrate dal vetro grosso e sagomato di uno sguardo sempre più attento e critico e dalle tende pesanti di una disillusione più acre del solito. Con questo disco Brunori Sas cerca il Lucio Dalla più scattante, ruba orchestrazioni terzomondiste e latineggianti che avrebbero fatto invidia al miglior Ivano Fossati, gioca con il sottovoce di un certo Lucio Battisti, prova a raccontare per metafore nude e crude come solo Francesco De Gregori ha saputo fare, quando serve urla il Rino Gaetano che ha dentro, e in tutto questo riesce finalmente a trovare se stesso. A casa tutto bene fa quello che ormai sembrava impossibile in Italia, ovvero raccoglie la pesante eredità del cantautorato tradizionale e la rende propria. Se poi cavalchi l’operazione con l’intenzione di portarla alla ribalta di non so quale fantomatico mainstream (che in molti sembrano paventare) o meno, è tutto da dimostrare. Anche se fosse, ben venga lo stesso. O invece no?

Tracce caldamente consigliate: L’uomo nero, Sabato bestiale, Secondo me

05. GOMMA, Toska

05. GOMMA, Toska

La Campania di Russia

Тоска è una parola russa difficile da tradurre in italiano. Difficile da tradurre con una parola sola, almeno, visto che può essere usata con diverse sfumature, pesi e misure. Al suo livello meno ingombrante è una specie di desiderio senza oggetto particolare, una vaga irrequietezza, una piccola brama che pulsa costante, ma può diventare anche uno struggimento che duole bastardo, una spasimo asincrono dell’anima o del cuore, una nostalgia ingestibile, fino a spegnersi, al suo grado più basso e grave, in una noia mortale, apatica, quasi priva di intenzioni vitali. È l’attesa più o meno ossessiva di qualcosa che in realtà non esiste (o comunque mai esisterà nel nostro microcosmo), un insolubile supplizio mentale. Gente strana i russi: ci hanno lasciato in dote tonnellate di carta — a firma dei migliori Tolstòj, Dostoevskij, Nabokov, Pushkin, Chekhov (continuate voi la lista) — per dire una cosa che la loro lingua riassumeva in cinque lettere di piombo. Ci deve essere dietro una storia del tipo repetita iuvant — non so come si scrive in cirillico. I Gomma sono di Caserta e hanno poco più di vent’anni, ma devono nascondere qualcosa di russo (e di tremendamente adulto) dentro, da qualche parte, almeno a giudicare dallo spessore del loro debutto. Non era facile sopravvivere a una promozione incosciente che ti pompa come il nuovo fenomeno di un genere che in Italia (forse nel mondo) praticamente non ha più mercato (e forse ancor meno considerazione, se non quella di una nicchia di irriducibili collezionisti di pagine di MySpace) come un generico, adolescenziale “emo-punk”. L’unica strada per farlo era entrare in punta di piedi nel sedicente panorama indie di questo paese con quell’umiltà dalla testa alta che può derivare solo dalla consapevolezza di essere qualcosa di più. Ci sono le chitarre sì, tante chitarre, e a volte l’urgenza di gridare le cose, ma l’ambientazione di fondo sa tanto di post-punk ibrido, rallentato e contaminato, soprattutto da dissertazioni e aperture post-rock in certi passaggi degne di quelle che una beata incoscienza aveva lasciato intravedere nei primi dischi dei Massimo Volume. Ci sono i Diaframma incastrati tra vuoti incolmabili e ricordi di plastilina, una matematica a sei corde che sa narrare come un arpeggio degli American Football, tutta una serie di sotterranee affinità e divergenze tra il compagno Zamboni e loro e una voce di donna acerbissima che con il tempo potrebbe diventare sul serio rock, ammesso non decida di darsi completamente all’esplorazione di quel deserto fertile chiamato spoken word. Toska porta a galla una questione estremamente attuale: nell’infinita ricerca della nostalgia che da anni ormai ha infettato il nostro stivale, a volte sembriamo dimenticarci di un elemento che — nella musica come nella vita — fa sempre (bene o male) la differenza. Se volete chiamarlo sincerità, vi farà piacere scoprire che qui di sincerità ce n’è a palate, così pura che a volte rischia di sconfinare in un’ingenuità parzialmente giustificata dal tempo che ancora ti manca sulle spalle, ma così spontanea da proporsi come vero valore artistico senza “se” e senza “ma”. Un disco precoce, ma dal concept complesso e ambiziosissimo: per questo probabilmente irripetibile, nonostante tutte le prove di maturità che sicuramente questi ragazzi non mancheranno di superare negli anni a venire.

Tracce caldamente consigliate: Aprile, Elefanti, Vicolo Spino

04. PAOLO BENVEGNÙ, H3+

04. PAOLO BENVEGNÙ, H3+

Il bicchiere tutto pieno di vuoto

Raccontare non è un’arte semplice: si rischia di inciampare nella presunzione delle proprie parole senza possibilità di rialzarsi, oppure di semplificare troppo le cose tralasciando volutamente pezzi fondamentali per una banale mancanza di coraggio. Fare ordine, schematizzare, dividere le operazioni necessarie in momenti successivi, spesso aiuta. Non a caso hanno inventato le trilogie: prendi tempo, fai mente locale, respiri e lasci riprendere fiato a chi ascolta, magari lo svegli pure con un buffetto, se l’atmosfera si sta facendo sonnacchiosa. Poi è chiaro, nessun algoritmo dà mai garanzie definitive, e anche con le trilogie si possono far dei bei casini (Star Wars ne è un esempio lampante quanto una spada laser), ma in genere la cosa porta benefici: prima presenti i protagonisti, poi li inserisci in un’ambientazione, infine rovini loro la vita nel modo più creativo, surreale o barbaro che ti puoi permettere. H3+ chiude il magico trittico iniziato con i personaggi di Hermann e proseguito nelle stanze di Earth Hotel, adagiandosi come un sogno nello spazio profondo, quello dove il buio è davvero buio e il vuoto davvero vuoto (non quella sensazione che sentite dentro quando, dopo dieci minuti che avete pubblicato, nessuno ancora ha messo uno straccio di like sul vostro ultimo status update di Facebook). H3+ è appunto lo ione triatomico dell’idrogeno, ovvero la molecola più diffusa in tutto l’universo, quella che riempie (con un concetto di riempimento tutto suo) l’infinito nulla che sta tra una stella e l’altra e Paolo Benvegnù un narratore scaltro e visionario come pochi altri nella storia della musica italiana, uno che le parole non le sceglie a caso, anche solo fossero le due o tre lettere in croce di un pezzetto di combinazione chimica. H3+ diventa così l’espressione onirica di un asteroide emozionale che, come una cometa ostinata, si fa strada tra una polvere interstellare in cui sono sminuzzati rimandi letterari a Italo Calvino e Ezra Pound e risuonano echi di costellazioni che vanno a formare la mai troppa compianta faccia sorniona di David Bowie nel bel mezzo della volta celeste, verso il completarsi di una formula se non vincente almeno rassicurante: approfittare di un metafisico distacco terreno per combattere paure reali con immagini e suggestioni a prima vista inafferrabili ma dall’inconfutabile peso specifico. Questo è l’album in cui l’ex leader degli Scisma spinge più a fondo l’acceleratore del suo lirismo innato e quindi è inevitabile che sia necessaria una dose più convinta del solito di pazienza, amore e dedizione per scandagliare fino in fondo le sue cadenze. Una dedizione che al giorno d’oggi sembra essere diventata sempre di più un lusso che non possiamo (vogliamo) permetterci. Ma la poesia è una roba difficile: non viene gratis e pretende attenzione. In caso contrario, meglio lasciar perdere e tornare, senza rimpianti, alle focaccine dell’Esselunga.

Tracce caldamente consigliate: Macchine, Olovisione in parte terza, Astrobar Sinatra

03. STELLA MARIS, Stella Maris

03. STELLA MARIS, Stella Maris

Vacanze italiane

Stella Maris, fin dal nome, ha il sapore di salsedine di un albergo degli anni Sessanta affacciato sulla spiaggia di una costa italiana a caso: il lungomare con i pini da un lato e gli scogli artificiali su cui si infrangono docili le onde dall’altro, le panchine su cui leggere il Guerin Sportivo con gli articoli di Gianni Brera e il porticato sotto il quale godersi la colazione continentale con vista, durante un inizio estate ancora (per poco) immune dall’invasione dei vacanzieri, mentre dalla radio in filodiffusione passano incuranti innocue canzoni di Gino Paoli e Johnny Dorelli. Il progetto Stella Maris parte esattamente da qui, lasciando intatta l’atmosfera, ma cambia improvvisamente stagione, mentre trasla in avanti l’orologio di una ventina di anni abbondanti. La moquette dei corridoi è rimasta la stessa, ma il televisore in camera ora dispensa munifico immagini in technicolor e la signora che cambia le lenzuola la mattina ha i capelli bianchi e fa un po’ più fatica a piegarsi mentre aggiusta le grinze sulle federe dei cuscini. C’è un mare d’inverno di ruggeriana memoria da guardare dalla finestra della camera che sfoggia persiane vecchie ma ridipinte di fresco e il pensiero indugia sulla coperta pesante in perenne attesa di attenzioni sullo scaffale più alto dell’armadio a muro. Giù nella hall un turista straniero fuori tempo massimo ha appena messo una moneta nel juke-box per fargli cantare un pezzo di Morrissey. Il tanto osannato boom economico sembra un problema da affrontare in un altro momento, o quantomeno in un’altra parte di questo grande paese. “Supergruppo” è un termine abbastanza ridicolo — che non so nemmeno se abbia un corrispettivo in inglese — coniato più o meno ai tempi in cui il nostro Stella Maris (l’albergo) era appena stato inaugurato e sta a indicare un progetto parallelo messo in piedi da membri ragguardevoli di band altrettanto famose. Gli Stella Maris (la band), in questo senso, potrebbero essere definiti un supergruppo indie, non perché in qualche modo si rifacciano alle sonorità it-pop che vanno adesso per la maggiore — anzi, Dio ce ne scampi e liberi, fanno di tutto per starne il più alla larga possibile — ma piuttosto nel senso che raccolgono membri di band di nicchia della scena italiana, non propriamente sulla cresta dell’onda nell’attuale momento storico fatto di strade che portano tutte nelle mutande di qualche ragazzina sotto il sole di Riccione, ma non per questo meno dotati e ispirati. Umberto Maria Giardini (chi se lo ricorda Moltheni?), Ugo Cappadonia, Gianluca Bartolo (Il Pan del Diavolo), Emanuele Alosi (La Banda del Pozzo) e Paolo Narduzzo (Universal Sex Arena), banda eterogenea di gente di una certa età, dimostra di saper gestire l’equilibrio in maniera magistrale, coltivando un’amorevole cura e il gusto innato per le cose belle, la semplicità della meraviglia, la poesia delle cose semplici. Suonare gli Smiths non è complicato: basta un po’ di passione e il necessario esercizio. Suonare gli Smiths in italiano e non risultare ridicoli è un’impresa che riesci a portare a termine solo se hai talento ed esperienza da vendere: si tratta, fondamentalmente, di prendere parole d’amore spinte al limite della decenza, la ricerca del senso degli addii, i pensieri che s’affollano la notte prima di dormire e i desideri incompiuti (tuttavia sempre così vicini e palpabili) e filtrarli dolci tra trame sonore che guardano con piacere feticista agli anni ottanta inglesi, quando le chitarre presero il pop per mano definendone la melodia e un certo timbro ironico nel prendersi tremendamente sul serio. Anacronistici come la (grande) bellezza, i (nemmeno troppo) vecchi componenti di Stella Maris guardano i propri giovani conterranei sfiorare una specie di successo infilando synth dove capita e senza un criterio, eppure si ostinano a accontentarsi di cose semplici come gli strumenti rock tradizionali per mescolare una poetica leggerezza che ha il sapore di una brezza improvvisa e cristallina con la malinconia eterea di giorni di pioggia sottile. Giorni da cui imparare qualcosa, giorni che chiudono un cerchio, giorni che hanno i colori (nemmeno troppo) sbiaditi di un déjà-vu. Benvenuti, questa è la chiave della vostra camera, il numero è inciso sul grosso portachiavi piombato: se vi aspettavate una tessera magnetica da strisciare sulla porta, qualcosa dev’essere andato storto con la vostra prenotazione online.

Tracce caldamente consigliate: Eleonora no, Quando un amore muore non ci sono colpe, Tutti i tuoi cenni

02. EDDA, Graziosa utopia

02. EDDA, Graziosa utopia

Farsela passare

Stefano Rampoldi è passato — tutt’altro che indenne direi (lo direbbe anche lui, credo), ma questo era davvero chiedere troppo — da svariati cicli di morte e resurrezione. È scomparso dalla vita (ir)reale ed è ricomparso — dopo un decennio buono di eremitica e anonima latitanza — un giorno qualunque, su YouTube, probabilmente senza avere nemmeno del tutto chiaro cosa fosse internet. È caduto dalle stelle di un potenziale stardom rock all’italiana ma ha trovato di nuovo la forza per svegliarsi alle sei di mattina e risalire su dei ponteggi da carpentiere ben più vertiginosi, perché quello era l’unico modo che gli permetteva di tenere i piedi per terra. Ha fatto i conti con una vita di alti e bassi senza mai capire bene da che parte pendesse sul serio la bilancia, innumerevoli passate di centrifuga senza potersi permettere un asciugatrice che non lo lasciasse ogni volta più bagnato di prima. Ha sotterrato una delle band potenzialmente più importanti di questo paese sapendo di farlo e forse è per questo che è tornato in solitaria, perché con gli altri finisce sempre a fare dei casini, e far male solo a se stessi lascia quei quattro rimorsi in meno che alla fine ti fanno dormire la notte. Non ha trovato la sua dimensione, perché nessuna dimensione è sufficientemente dimensionata per contenere tutto uno Stefano Rampoldi senza lasciarne in ombra uno degli infiniti lati del prisma con cui si materializza la sua complessità, però da quando ha fatto pace con il suo bisogno di scrivere canzoni ha sfornato tre album di una bellezza devastante. Questo è il quarto. Ora, non si augura a nessuno una condizione in cui soffrire da cani si riveli l’unica strada per dare alla luce una sfilza sorprendente di capolavori lancinanti: sarebbe una cosa da stronzi egoisti e, per fortuna, nemmeno è necessario. Così Graziosa Utopia prova a lasciar intravedere un sottofondo che pare assomigliare a una sorta di serenità, anche se — manco a dirlo — se di serenità si tratta, è la versione rampoldiana del concetto, ovvero una sua lontana parente, un roba che non ha nulla a che fare con la sensazione di non aver più conti in sospeso con niente e nessuno, quanto piuttosto la presa di coscienza ingarbugliata — all’insegna del mantra “fattela passare” — che provare soddisfazione a fare il proprio mestiere non sia necessariamente un peccato. Una decrescita confusa e felice che a modo suo in certi momenti riesce a sciogliere la tensione accumulata nei precedenti lavori, senza mai rinunciare a quel velo di ironia immancabile, tratto caratteristico che qui però assume contorni meno sguaiati. Nessuno vieta di usare il termine “pop”, ma la realtà di questo disco è più sfaccettata: ha qualcosa a che fare con la perdita di insicurezza di un uomo di 54 anni che inizia a sospettare sul serio di averlo, quel talento che tutti gli vedono addosso, ancora inguaribilmente pessimista, mai soddisfatto della propria arte e sempre pronto a carezzare i suoi lividi, ma ragionevolmente sfrontato per giocare le fiches più colorate che ha in tasca su quello che forse è l’album più solido (a oggi) della sua carriera da solista.

Tracce caldamente consigliate: Signora, Brunello, Il santo e il capriolo

01. MAURO ERMANNO GIOVANARDI, La mia generazione

01. MAURO ERMANNO GIOVANARDI, La mia generazione

Quanto eravamo fighi

Mauro Ermanno Giovanardi ha sempre dimostrato — fin dai tempi in cui scriveva canzoni come Inventario — di essere uno che non ha paura di guardarsi indietro. Anzi, non ha mai nascosto di avere una specie di bisogno, di fare i conti, ciclicamente, con il proprio passato. Di più: ha affinato negli anni una capacità unica di raccontarsi senza retorica. Stupisce quindi solo fino a un certo punto come La mia generazione riesca a far rivivere in soli tredici pezzi quello che è comunemente riconosciuto come il periodo d’oro del rock italiano, quegli anni Novanta durante in quali un’intera generazione appunto (che stava indifferentemente sul palco o sotto il palco), figlia di una cultura anglofona, si rese conto che una musica diversa dal cantautorato classico poteva essere scritta (e ascoltata) anche nella propria lingua, e avere lo stesso impatto, se non una forza d’urto ancora maggiore. È stata forse davvero l’ultima occasione di cambiare le regole e le carte in tavola che la musica “alternativa” italiana (non) è riuscita a cogliere, lasciandosi dietro tutto quello che una battaglia del genere non può fare a meno di lasciarsi dietro: morti sul campo (penso con rammarico a band come i Ritmo Tribale, Üstmamò, Mau Mau, Casino Royale), qualche araba fenice risorta dalle sue stesse ceneri (i Massimo Volume, così come lo splendido Edda di queste stagioni) e dei meravigliosi mostri rimasti — per fortuna, chi più chi meno — sacri (Afterhours, Marlene Kuntz, Subsonica). Capisco che inserire in una classifica di fine anno un disco di cover può risultare una scelta alquanto bizzarra (nella migliore delle ipotesi) se non addirittura una roba simile a una paraculata, ma questo lavoro di Giovanardi merita un discorso a parte e un trattamento di favore per come riesce a rimanere lontanissimo da quello che era il rischio più grande in un’operazione del genere: cadere nel pozzo dei nostalgici che si parlano addosso o — peggio ancora — in quello dei vecchi umarell inaciditi e spocchiosi che borbottano “ai miei tempi…”. Al contrario, questa è una dichiarazione d’amore fatta prima con la testa che con il cuore, viscerale ma allo stesso tempo analiticamente (quasi antropologicamente) attenta, che bypassa il revival, il compromesso storico e il ricordo di quanto eravamo fighi. Un disco di cui — soprattutto oggi — c’è più bisogno di quanto si creda. Perché — inutile negarlo — a quei tempi, fighi lo eravamo per davvero. E nemmeno poco. Dimenticarselo sarebbe solo una stupida forma di falsa modestia che non farebbe bene a nessuno. Soprattutto a chi vorrà incautamente imitarci.

Tracce caldamente consigliate: Aspettando il sole, Baby Dull, Corto Maltese

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